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Il vero significato del trigger espiratorio

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Una caratteristica peculiare della pressione di supporto è il modo in cui il ventilatore meccanico decide il termine dell’inspirazione (il cosiddetto ciclaggio). Unica tra tutte le modalità di ventilazione, la pressione di supporto è infatti ciclata a flusso ed il trigger espiratorio è il segnale che utilizza per questo scopo.

Oggi vedremo cosa significaciclata a flusso” e ” trigger espiratorio“; ma soprattutto rifletteremo sul significato e sull’utilizzo clinico di queste funzioni. E capiremo come possa essere poco sensato quello che solitamente ci si racconta…

Ciclaggio a flusso e trigger espiratorio (versione canonica)

Durante tutte le modalità di ventilazione controllate ed assitite-controllate, la durata dell’inspirazione è determinata dal tempo inspiratorio*. Sono quindi definite come “ciclate a tempo“. In questo caso tutte le inspirazioni hanno una durata fissa, sempre uguale, ed il paziente è obbligato a rimanere in inspirazione per il tempo che abbiamo impostato: il controllo della durata della inspirazione è nella mani del medico (e del ventilatore) ed il paziente si deve adeguare. Questo vincolo non è, di per sè, nè un bene nè un male: può essere un punto di forza o un limite in relazione agli obiettivi clinici ed all’interazione paziente-ventilatore.

La pressione di supporto invece non ha nessuna impostazione del tempo inspiratorio** perchè è “ciclata a flusso“. Questo termine significa che il ciclaggio (cioè il passaggio dall’inspirazione all’espirazione) è guidato dal flusso inspiratorio.

La pressione di supporto è una ventilazione pressometrica, ed è quindi caratterizzata da un flusso inspiratorio decrescente (in assenza di attività inspiratoria del paziente). Un picco di flusso inspiratorio viene raggiunto all’inizio dell’inspirazione, quindi il flusso decresce, interrompendosi quando raggiunge il trigger espiratorio. Il trigger espiratorio è espresso come percentuale di flusso rispetto al picco. Vediamo un esempio in figura 1, in cui è rappresentata la curva di flusso di una pressione di supporto con trigger espiratorio del 30%: il picco di flusso è di 45 l/min ed il flusso a cui si attiva il trigger espiratorio (quando cioè il flusso repentinamente scende a zero, trattino rosso) è 15 l/min, cioè il 30% del valore di picco.

Figura 1

A questo punto è facile capire come la riduzione del trigger espiratorio (cioè della percentuale rispetto al piccodi flusso) possa portare ad un prolungamento dell’inspirazione, ed invece un aumento del trigger espiratorio ad una sua riduzione. Il processo è rappresentato in figura 2, in cui è riportata in giallo la durata dell’inspirazione: essa aumenta da 0.6 a 1.2 secondi riducendo il trigger espiratorio dal 50% al 10%.

Figura 2.

Ma ha senso pensare in questo modo al trigger espiratorio? Nella pratica clinica funziona veramente così?

Significato ed utilizzo clinico del ciclaggio a flusso

Negli anni ottanta del secolo scorso entrò nel mondo della ventilazione meccanica il Servo Ventilator 900C Siemens (figura 3), una macchina per certi versi rivoluzionaria e con la novità della ventilazione a pressione di supporto e quindi del ciclaggio a flusso. Rivederlo mi emoziona sempre: su questa macchina ho iniziato ad amare ventilazione meccanica e meccanica respiratoria.

Come si può vedere dallo scarno pannello dei comandi, nel ventilatore che ha “inventato” la pressione di supporto era assente l’impostazione del trigger espiratorio, che era di default fisso al 25%. Oggi i nostri moderni ventilatori  ci consentono di impostare il trigger espiratorio a valori che possono variare anche dal 1% al 80%. La regolazione del trigger espiratorio è un reale passo avanti o uno degli inutili gadget dei ventilatori meccanici? Potremo rispondere a questa domanda alla fine del post.

Figura 3

Se ci pensiamo bene, l’unica vera innovazione della pressione di supporto è il ciclaggio a flusso. Infatti, anche senza pressione di supporto, l’assistenza inspiratoria pressometrica tutta triggerata dal paziente si può tranquillamente ottenere impostando una pressione controllata con frequenza respiratoria molto bassa e trigger inspiratorio sensibile; di fatto tutti gli atti respiratori sono triggerati dal paziente e con supporto pressometrico.

Quindi la pressione di supporto è stata inventata per avere il ciclaggio a flusso. Ma perchè mai qualcuno ha voluto inventare il ciclaggio a flusso? Perchè il ciclaggio a flusso consente al paziente di determinare la durata dell’inspirazione: si abbandona la logica del ciclaggio a tempo, cioè di un tempo inspiratorio rigido, immutabile e definito dal ventilatore, per passare alla flessibilità del ciclaggio a flusso, dove la durata dell’inspirazione è determinata dal paziente atto per atto respiratorio. Ed il trigger espiratorio è lo strumento sfruttato per ottenere tutto questo.

Adesso torna alla figura 2. Ti sembra che il ciclaggio a flusso sia utilizzato per consentire al paziente di definire spontaneamente, respiro per respiro, la durata dell’inspirazione? A me non sembra proprio: in questo modo si torna ad attribuire al ventilatore il compito di decidere la durata dell’inspirazione. Un risultato che possiamo ottenere tranquillamente con un normale ciclaggio a tempo, impostando quindi un bel tempo inspiratorio sul ventilatore. Peraltro nota una cosa: il controllo della durata dell’inspirazione utilizzando il ciclaggio a flusso, come vedi in figura 2, è possibile solo se si ottiene una bella curva di flusso decrescente. Come ormai ben sanno gli amici di ventilab, questo si verifica solo quando manteniamo il paziente sostanzialmente passivo durante l’inspirazione, condizione che spesso dovremmo cercare di evitare durante la ventilazione assistita (vedi post del 10/09/2016).

Quando ventiliamo con una pressione di supporto un  paziente che mantenga una buona attività dei muscoli inspiratori, come ben sappiamo la curva di flusso inspiratorio smette di avere un profilo decrescente e presenta invece una concavità verso il basso. Quando siamo in questa condizione, il trigger espiratorio influenza davvero la durata dell’inspirazione? Vediamolo nella figura 4.

Figura 4

La curva di flusso ha un picco inspiratorio iniziale di 40 l/min. Dopo il raggiungimento del picco, il flusso inspiratorio non decresce linearmente verso il punto di ciclaggio, ma è mantenuto elevato dall’attività dei muscoli inspiratori (per dettagli rivedi nuovamente il post del 10/09/2016). Nella parte finale dell’inspirazione, il flusso scende quasi verticalmente verso lo zero. In questa fase agisce il trigger espiratorio: quando il flusso raggiunge il valore impostato, finisce l’inspirazione ed inizia l’espirazione. Nel caso in figura 4 il trigger espiratorio era impostato al 10% del picco di flusso, quindi a 4 l/min per il respiro preso in considerazione. A questo livello di flusso è disegnata la linea tratteggiata orizzontale rossa. Il ciclaggio avviene quanto viene raggiunto questo flusso inspiratorio (tratto verticale rosso). Quando sarebbe terminata l’inspirazione se avessimo impostato un trigger espiratorio molto diverso, ad esempio il 50%? In questo caso il flusso a cui avverrebbe il ciclaggio sarebbe la metà del picco inspiratorio, cioè 20 l/min: a questo livello è disegnata la linea orizzontale tratteggiata gialla. Possiamo facilmente vedere come il momento in cui il flusso inspiratorio raggiunge questo valore (identificato sull’asse orizzontale del tempo dalla linea tratteggiata verticale gialla) sia solo minimamente diverso da quello determinato dal trigger al 10%.

In sintesi: quando il paziente è attivo durante l’inspirazione, il trigger espiratorio non modifica significativamente la durata dell’inspirazione. Al contrario questo accade quando il paziente è passivo, come abbiamo visto nella figura 2. Ma quando un paziente è passivo durante l’inspirazione, che vantaggio c’è nel fare una pressione di supporto? Se vogliamo controllare noi la durata dell’inspirazione, non è più semplice ed immediato scegliere una ventilazione ciclata a tempo, decidendo esplicitamente quanto far durare l’inspirazione?

Riassumendo: l’unica vera innovazione della pressione di supporto è stato il controllo, respiro per respiro, della durata dell’inspirazione esercitato dal paziente. Abbiamo capito che questo è realmente possibile solo quando il paziente mantiene una buona attività durante tutta la fase inspiratoria. Ed abbiamo visto che in queste condizioni la variazione del trigger espiratorio ha una influenza trascurabile sulla durata dell’inspirazione.

A questo punto possiamo ripondere consapevolmente alla domanda lasciata in sospeso in precedenza: è stato un progresso reale passare dal trigger espiratorio fisso al 25% alla possibilità di variarlo dal 1 al 80%? A mio parere no: se vogliamo controllare la durata della inspirazione meglio un ciclaggio a tempo. La “mission” del ciclaggio a flusso è invece quella di togliere a noi il controllo della durata dell’inspirazione per lasciarla al paziente. In questo l’inventore del ciclaggio a flusso è stato veramente geniale: era perfettamente consapevole dell’effetto dell’attività del paziente sulla curva di flusso e capì che quando il paziente avesse smesso di inspirare (cioè rilasciato i muscoli inspiratori e/o attivato i muscoli espiratori), il flusso inspiratorio sarebbe crollato rapidamente. E quindi il segnale critico per sincronizzare l’espirazione del paziente con quella del ventilatore era cogliere “al volo” questo calo repentino di flusso inspiratorio: ripeto, GENIALE! E fissare come criterio la riduzione del flusso inspiratorio al 25% del picco di flusso fu una una soluzione semplice e ragionevole.

Un’ultima riflessione, forse un po’ complessa, ma veramente interessante: utilizzare il trigger espiratorio per modificare la durata dell’inspirazione (come abbiamo visto nella figura 2) produce necessariamente una asincronia di termine, in paricolare un ciclaggio ritardato. Non abbiamo tempo per approndire ora questo aspetto, ma teniamone conto. Gli studi che hanno documentato il ciclaggio ritardato durante pressione di supporto probabilmente hanno fatto un utilizzo “contro natura” (in senso stretto) della pressione di supporto, associando la passività del paziente al trigger a flusso: in queste condizioni è implicita l’asincronia. Per chiarire meglio questo aspetto potrei fare prossimamente un post sulle asincronie di termine.

E’ giunta l’ora di concludere, e facciamolo come sempre con le implicazioni pratiche di quello che abbiamo detto:

  • se vogliamo mantenere un paziente poco attivo e controllare la durata dell’inspirazione, non abbiamo bisogno della pressione di supporto: possiamo utilizzare in modo semplice ed efficace una ventilazione a pressione controllata con una frequenza respiratoria minima ed un tempo inspiratorio ragionevole (tra 0.8″ e 1″);
  • se l’obiettivo principale è la costante sincronia paziente-ventilatore, allora è molto semplice ed efficace utilizzare la pressione di supporto con paziente attivo durante l’inspirazione. Il ciclaggio avrà una buona sincronia entro ampi limiti di impostazione del trigger espiratorio. Direi che nella maggior parte dei casi il 25% può essere ragionevole (anche in omaggio alle buone intenzioni di chi ha sviluppato la pressione di supporto).

A tutti gli amici di ventilab, un sorriso e tanti cari auguri di buon Anno Nuovo!

 

Note:
*: tempo inspiratorio che può essere impostato direttamente definendone la durata in secondi o indirettamente con il settaggio del rapporto I:E o del flusso inspiratorio.
**: esiste sempre un tempo inspiratorio massimo consentito, che può essere fisso (in questo caso non compare tra i parametri di impostazione) o definibile dall’utente. Entro quel tempo inspiratorio massimo, la fine dell’inspirazione è innescata dal trigger espiratorio.


Ipercapnia e ARDS, cambia qualcosa? Parte prima: aspetti fisiopatologici.

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Giorgio ha una ARDS. L’impostazione della ventilazione meccanica è: volume corrente (VT) 420 ml, frequenza respiratoria (FR) 26/min, PEEP 8 cmH2O. Il PaO2/FIO2 è 170 mmHg, la PaCO2 68 mmHg ed il pH 7.36. Dobbiamo preoccuparci di questa ipercapnia?

In passato ho speso parole di tolleranza verso l’incremento della PaCO2 in corso di ventilazione protettiva nei pazienti con ARDS (vedi post del 24/09/2011 e del 03/08/2013). Questa tolleranza è ancora giustificata dopo la pubbblicazione di uno studio (che ultimamente vedo citato sempre più spesso) che evidenzia un’associazione tra ipercapnia e mortalità nei pazienti con ARDS (1)? Questo dato, se credibile, ci deve ovviamente creare forti dubbi se accettare o meno l’ipercapnia di Giorgio.

Lo studio che documenta l’associazione tra ipercapnia e mortalità è un’analisi secondaria su pazienti arruolati in tre studi osservazionali condotti tra il 1998 ed il 2010 ed il livello di ipercapnia è stato definito in base al peggior valore di PaCO2 rilevato nelle prime 48 ore di ventilazione meccanica. Siamo di fronte ad un disegno dello studio certamente debole, e perciò i risultati devono essere interpretati criticamente, soprattutto alla luce della plausibilità biologica. Per questo può essere utile, e piacevole, un tuffo nella fisiologia per capire perchè si genera l’ipercapnia nei pazienti con ARDS e quali sono le sue conseguenze biologiche e cliniche.

La pressione parziale della CO2 alveolare (PACO2).

La pressione parziale della CO2 alveolare (PACO2, con la “A” maiuscola per identificare l’alveolo) dipende della produzione di CO2 (V’CO2) e della ventilazione alveolare (VA). In particolare, la PACO2 aumenta se la ventilazione alveolare VA diminuisce. Il tutto è riassunto con semplice efficacia nell’equazione dei gas alveolari per la CO2:

(equazione 1)

La ventilazione alveolare VA differisce dalla ventilazione minuto VE (il prodotto di VT e FR) perchè esclude la parte di VT che resta confinata nello spazio morto (VD), cioè che si ferma nelle vie aeree prive di strutture alveolari e quindi senza possibilità di scambio gassoso:

(equazione 2)

L’equazione 2 può essere riscritta, in modo forse più utile per la prosecuzione della lettura, come:

(equazione 3)

dove VD/VT è il rapporto tra spazio morto e volume corrente, variabile con la quale torneremo presto a fare i conti. La ventilazione alveolare VA pertanto diminuisce se si riduce la ventilazione minuto VE e/o se aumenta il VD/VT.

L’equazione 1 può essere può essere riformulata nel seguente modo:

(equazione 4)

Assumiamo da questo momento che la V’CO2 sia costante e torniamo al caso di Giorgio. Se è elevata la PaCO2, (con la “a” minuscola per identificare il sangue arterioso), sarà elevata anche la PACO2, poichè PACO2 e PaCO2 sono considerate sostanzialmente equivalenti.

La VE di Giorgio durante la ventilazione protettiva è di 10.9 l/min (420 ml × 26/min), quasi il doppio di quella fisiologica, che è circa 5.4-6 l/min (450-500 ml × 12/min). Ne consegue che l’ipoventilazione alveolare e quindi l’ipercapnia possono essere spiegate unicamente da un aumento del VD/VT (equazione 4).

A questo punto complichiamo un po’ il concetto di spazio morto: non parliamo infatti dello spazio morto anatomico (quello delle vie aeree) (VDaw), ma dello spazio morto fisiologico (VDphys), somma del VDaw e dello spazio morto alveolare (VDalv).

Lo spazio morto anatomico VDaw (cioè il volume delle vie aeree) può essere schematizzato come uno spazio aereo anatomicamente sprovvisto di capillari alveolari (G nella figura 1). Il suo volume non si modifica significativamente nella ARDS.

Lo spazio morto alveolare VDalv si genera in quegli alveoli in cui cessa la perfusione capillare, dove quindi la ventilazione non partecipa allo scambio gassoso per l’assenza di contatto con il sangue capillare polmonare (figura 1, F). In queste zone il rapporto ventilazione alveolare/perfusione (VA/Q) è infinito (∞), dal momento che la perfusione è 0.

Nei polmoni patologici esistono anche aree con un eccesso di ventilazione alveolare rispetto alla perfusione (VA/Q elevato, ma non ∞), che contribuiscono allo spazio morto alveolare (figura 1, E). Talvolta questa condizione è definita “spazio morto relativo” o “effetto spazio morto”.

Nella ARDS è l’aumento dello spazio morto alveolare che determina l’incremento dello spazio morto fisiologico.

Figura 1

La figura 2 propone un grafico tradizionale in tutti i testi di fisiologia: la variazione delle pressioni dei gas alveolari al variare del VA/Q. Occupiamoci ora solo della PACO2 (asse verticale): nelle zone con VA/Q = ∞ (i casi F e G della figura 1), la PACO2 è 0 mmHg: l’aria inspirata, che non contiene CO2, non viene modificata per l’assenza di scambio gassoso (figura 2, punto A). La progressiva riduzione del VA/Q (freccia rossa tratteggiata) determina un consensuale aumento della PACO2 (freccia grigia che va da A a B), che al massimo può eguagliare la pressione venosa mista di CO2 (PvCO2) quando il VA/Q diventa 0.


Figura 2

Forse l’argomento non è però così chiaro come può sembrare: l’aumento del VA/Q, che produce VDalv, determina un calo della PACO2 (figura 2). Ma nell’equazione 4 abbiamo visto che l’incremento del VD aumenta la PACO2. Pensiamo alla ARDS, dove coesistono aree con alto e basso VA/Q: nelle zone ad elevato VA/Q, la PACO2 dovrebbe essere bassa, in quelle a basso VA/Q al massimo dovrebbe essere simile a quella venosa (fisiologicamente 46 mmHg) (sempre figura 2). Come possiamo allora spiegare l’ipercapnia di Mario se la PACO2 (e la PaCO2 che è ad essa simile) non raggiunge valori elevati, qualunque sia il VA/Q? Come si può ridurre la VA a tal punto da generare una marcata ipercapnia?

La relazione tra spazio morto e PaCO2 è quindi piuttosto complessa e merita un approfondimento per risolvere le vere o presunte contraddizioni.

La CO2 espirata, alveolare ed arteriosa.

Vedremo ora una descrizione dettagliata dell’impatto che il VA/Q ha su PaCO2 e spazio morto alveolare: la prima parte, relativa alla fisiologia, è fatta passo passo, per consentire poi di muoversi più agilmente negli esempi successvi. Premetto che è una interpretazione originale: ho cercato di seguire una strada diversa da quella che si trova solitamente nei testi ed in letteratura. Ho preferito questo approccio (con i rischi e i limiti che può avere) perchè seguendo l’approccio tradizionale non ho mai capito veramente bene come si possa generare l’ipercapnia quando in assenza di una riduzione della ventilazione al minuto.

Ipotizziamo di avere un soggetto sano, da “libro di fisiologia”: VT 500 ml, VDaw 150 ml, FR 11/min, V’CO2 200 ml/min. Poichè i suoi polmoni sono sani ed ha una fisiologica distribuzione del VA/Q, tutto il suo spazio morto corrisponde a quello anatomico ed è circa il 30% del volume corrente (VD/VT = 150 ml/500 ml = 0.30). La VE è 5500 ml/min (500 ml × 11/min): la VA è 3850 ml/min [(500 ml -150 ml) × 11/min], mentre 1650 ml/min è la ventilazione al minuto dello spazio morto (150 ml × 11/min).

Immaginiamo i polmoni divisi in due compartimenti di identiche dimensioni, in cui la VA sia distribuita al 50% in ciascun compartimento polmonare (cioè 1925 ml/min per compartimento).

La CO2 prodotta ogni minuto dal metabolismo tissutale (cioè il V’CO2) è trasportata ai capillari polmonari. In condizioni di equilibrio, i polmoni eliminano solamente e completamente una quantità di CO2 uguale a quella prodotta dai tessuti e non più di questa. Prendiamo in considerazione questa condizione di stabilità, in cui il volume di CO2 espirato coincida perfettamente con la produzione di CO2.

Consideriamo la portata cardiaca Q distribuita equamente nei due compartimenti. Poichè la CO2 prodotta dal metabolismo è portata ai capillari alveolari dalla portata cardiaca, vi sarà anche una uguale ripartizione del V’CO2 nei due comportimenti, a ciascuno dei quali saranno indirizzati quindi 100 ml di CO2 ogni minuto (cioè il 50% del V’CO2). E’ questa la quantità di CO2 che ciascun compartimento deve eliminare all’equilibrio attraverso la ventilazione alveolare.

Questa condizione è schematizzata nella figura 3. I due compartimenti sono delimitati nelle aree azzurra e rosa. L’apparato respiratorio, delimitato dalla linea nera continua, è composto da una “Y” capovolta (le vie aeree, cioè il VD), esterna ai due compartimenti polmonari, e da due spazi alveolari circolari, ciascuno in un differente compartimento. La doppia riga continua rossa schematizza i rispettivi capillari polmonari, nel cui interno è quantificato il flusso di CO2 che, trasportato dal sangue, deve essere “smaltito” nei polmoni ogni minuto.

Ed ora veniamo al dunque.


Figura 3

Ci troviamo nella condizione in cui, in ciascun compartimento, 100 ml di CO2 si miscelano in 1925 ml di VA. Possiamo quindi calcolare la frazione alveolare di CO2 (FACO2), cioè il rapporto tra il volume di CO2 ed il volume alveolare (per la precisone è, in questo caso, un rapporto tra flussi). La FACO2 in questo caso è 0.052 (cioè 100 ml/min di CO2 in 1925 ml/min di VA): questo significa che la CO2 rappresenta il 5.2% del gas alveolare (FACO2 × 100). Per la legge delle pressioni parziali dei gas di Dalton, la PACO2 esercita il 5.2% della pressione presente nell’alveolo, che pertanto è 40 mmHg (760 mmHg × 0.052) (Figura 4). (Ipotizziamo per semplicità un quoziente respiratorio di 1, che significa che 100 ml di CO2 che entrano nell’alveolo sostituiscono una uguale quantità di O2 che lascia l’alveolo per entrare nel sangue capillare).


Figura 4

La pressione di CO2 nel gas espirato (PECO2) non è uguale alla PACO2, perchè il gas alveolare si deve miscelare con quello dello spazio morto, che non contiene CO2. Il modo più semplice per conoscere l’ipotetica PECO2 è calcolare la frazione espiratoria di CO2 (FECO2) e moltiplicarla per la pressione atmosferica (similmente a quanto abbiamo fatto per il calcolo della PACO2). E’ probabilmente più facile capire il concetto seguendo i calcoli: all’uscita dalle vie aeree, i 200 ml di CO2, prodotti ogni minuto dal metabolismo ed espirati, sono contenuti nel VE (che nell’esempio è 5500 ml/min); la FECO2 è 0.04 (200/5500) e la PECO2 28 mmHg (760 x 0.04) (Figura 5).


Figura 5

Resta da capire quanto sarà, in questa condizione, la PaCO2. In ciascuno dei compartimenti, la PACO2 si mette in equilibrio con il rispettivo sangue capillare, e la pressione parziale di CO2 alla fine del capillare polmonare (PcCO2) diventa uguale alla corrispondente PACO2. In entrambi i compartimenti la PcCO2 è quindi 40 mmHg. Poichè la portata cardiaca è ripartita equamente, il flusso di sangue in uscita dal circolo capillare polmonare è uguale nei due compartimenti. La PaCO2 è la media ponderata delle PcCO2 dei due compartimenti (cioè la somma dei prodotti tra PcCO2 e frazione di Q in ciascun compartimento); in questo caso è facile: 40 mmHg (cioè: 40 × 0.5 + 40 × 0.5) (Figura 6). (Può essere ovvio, ma è meglio ricordare che la frazione di Q è la percentuale di Q/100)


Figura 6

Ora possiamo calcolare il rapporto tra spazio morto fisiologico e volume corrente con la formula di Bohr-Enghoff:

(equazione 5)

C’è dibattito se questo approccio sia preferibile alla originale formula di Bohr (calcolabile con la capnografia volumetrica), dove la PACO2 sostituisce la PaCO2. Se qualcuno fosse interessato, potremmo discuterne nei commenti.

Il VDphys/VT che calcoliamo con i nostri dati è 0.30, uguale allo VDaw/VT, calcolato con lo spazio morto anatomico della nostra simulazione. Ne deduciamo che in questa condizione non esiste spazio morto alveolare perche spazio morto fisiologico ed anatomico coincidono.

Ipotizzando una portata cardiaca da fisiologia (5000 ml/min), il VA/Q complessivo sarebbe 0.8, anch’esso ovviamente fisiologico.

Ventilazione protettiva, ARDS e ipercapnia.

Applicando la ventilazione protettiva di Giorgio (VT 420 ml × FR 26/min) ad un polmone fisiologico, come quello esaminato nell’esempio precedente, quanto sarebbe la PaCO2?

Vediamo il risultato finale nella figura 7.

Figura 7

Risparmiamoci tutti i passaggi visti nell’esempio precedente (è comunque un ottimo esercizio per chi lo volesse fare) e arriviamo al risultato finale: la ventilazione protettiva applicata ad un soggetto sano produce ipocapnia (nel nostro esempio la PaCO2 è 22 mmHg). Questa ventilazione sarà anche protettiva, ma è pur sempre una forma di iperventilazione.

Rispetto alla ventilazione fisiologica, il VDphys/VT è un po’ aumentato (da 0.30 a 0.36), ma come nell’esempio di prima è uguale al VDaw/VT (150 ml di VDaw su 420 ml di VT): anche in questo caso non vi è spazio morto alveolare, dato che non vi è differenza tra VDphys/VT e VDaw/VT . L’aumento della ventilazione alveolare (da 3850 a 7020 ml/min) è stato molto maggiore dell’aumento di spazio morto, e questo spiega la riduzione della PACO2 e conseguentemente della PaCO2.

Se la portata cardiaca rimanesse uguale a quella dell’esempio precedente (5000 ml/min), il VA/Q complessivo sarebbe 1.4, un mismatch ventilazione/perfusione con alto VA/Q.

Facciamo ora l’esempio di un paziente con ARDS, come Giorgio, a cui viene erogata la ventilazione protettiva con VT 420 ml e FR 26/min. Il polmone è certamente diverso da quello fisiologico.

Figura 8

Nella figura 8 vediamo una sezione TC di polmone sano a sinistra e con ARDS a destra. Nel polmone sano vediamo che il parenchima polmonare è di colore omogeneo. Nel polmone con ARDS vediamo aree iperdiafane (più nere del normale, delimitate dalla linea azzurra) ed aree iperdense (più bianche del normale, linea rossa). Nelle zone iperdiafane vi è sovradistensione delle strutture alveolari, dovuta ad un incremento della ventilazione regionale. Vi è anche una riduzione della perfusione, in parte per un effetto gravitazionale, in parte perchè le pareti alveolari iperdistese comprimono i capillari polmonari. Nelle aree iperdense vi è una riduzione (o l’assenza) di ventilazione, con la perfusione che è favorita dalla forza di gravità, con un effetto variabile sulle resistenze vascolari legato all’entità della vasocostrizione ipossica.

Ipotizziamo che nelle zone più ventilate venga dirottato il 80% delle ventilazione, mentre in quelle meno ventilate sia distribuito il rimanente 20%. Ed ipotizziamo che la perfusione sia distribuita prevalentemente (80%) alle zone poco ventilate ed in piccola parte alle zone iperventilate (20%). La condizione è schematizzata nella figura 9, in cui nel compartimento di sinistra (azzurro) sono schematizzate le aree ben ventilate e mal perfuse ed in quello di destra (rosso) quelle mal ventilate e ben perfuse.

Figura 9

Abbiamo quindi un compartimento ad alto VA/Q (a sinistra) ed una a basso VA/Q (a destra). A sinistra destra arrivano 5616 ml/min (cioè l’80%) di ventilazione che devono drenare, all’equilibrio, il 20% della CO2 prodotta dall’organismo, dal momento che vi arriva solo il 20% della portata cardiaca. A destra sinistra una ventilazione alveolare molto minore (1404 ml/min, cioè il 20 %) deve farsi carico del 80% del V’CO2. Il risultato finale è mostrato in figura 10.

Figura 10

Come sempre, puoi rifare i calcoli da solo (il procedimento è sempre lo stesso). La sostanza è che, nel compartimento di sinistra, la rimozione di poca CO2 da parte di tanta ventilazione porta ad un drastico abbassamento della PACO2 e quindi della PcCO2. Viceversa, nel compartimento di destra, il passaggio di tanta CO2 in poco volume ventilato è possibile solo raggiungendo una elevata PACO2 e quindi una altrettanto elevata PcCO2.  La PaCO2 è la media ponderata del sangue proveniente dai capillari polmonari: 5 mmHg*0.2 + 87 mmHg*0.8 = 70 mmHg. Il risultato finale è una PaCO2 elevata (70 mmHg, più o meno come quella di Giorgio), frutto del fatto che molto sangue con 87 mmHg di PCO2 si miscela a poco sangue con 5 mmHg di PCO2.

Il VDphys/VT è di 0.80, ben più elevato dello 0.36 del VDaw/VT (150 ml di VDaw/420 ml di VT). In questo caso abbiamo un notevole spazio morto alveolare, essendo il VDalv/VT 0.44 (cioè la differenza tra VDphys/VT e VDaw/VT). Se applichiamo l’equazione 4, si calcola una VA di 2184 ml/min, di gran lunga inferiore ai 7020 ml/min ottenuti utilizzando il solo spazio morto anatomico. Ed anche inferiore ai 3850 ml/min della condizione fisiologica che è stata considerata inizialmente. A questo punto si potrebbero fare molte speculazioni sul significato di ventilazione alveolare e spazio morto fisiologico… certamente ciascuno le potrà fare per proprio conto…

I calcoli che abbiamo fatto non hanno certo la pretesa di essere precisi in vivo e ci sono aspetti complessi di cui non si è tenuto conto. Ma fanno capire bene che l’ipercapnia si genera nelle zone a basso VA/Q: è sempre l’ipoventilazione alveolare a determinare l’aumento della PACO2 e della PaCO2. In alcuni casi il concetto è chiaro, come quando vi è ipoventilazione (riduzione della VE), che ha come inevitabile conseguenza un’omogenea riduzione della VA e quindi del VA/Q. Quando invece si ha iperventilazione (elevata VE) e nonostante questo si sviluppa ipercapnia, essa è generata dal mismatch VA/Q che si genera nelle zone a basso VA/Q regionale, dove si instaura una ipoventilazione distrettuale perchè altre aree polmonari hanno “rubato” ventilazione e ceduto perfusione.

Può ora essere evidente come ipossiemia ed ipercapnia si sviluppino negli stessi compartimenti polmonari, quelli in cui il VA/Q regionale è inferiore a quello fisiologico: poca ventilazione modifica poco il sangue venoso, e l’elevata perfusione fa sì che queste zone abbiano un peso più rilevante sulla composizione del sangue arterioso. Viceversa i compartimenti con alto VA/Q regionale influiscono poco sui gas arteriosi: sono zone a relativamente bassa perfusione e quindi contribuiscono meno alla composizione del sangue arterioso.

Per concludere (per ora)…

Un recente articolo ci ha fatto venire il dubbio che l’ipercapnia possa essere “velenosa” per i pazienti con ARDS, avendo trovato un’associazione tra ipercapnia e mortalità.

Abbiamo capito che le alterazioni regionali del VA/Q sono tipiche dei pazienti con ARDS (figura 8) e che sono la causa dell’ipercapnia durante la ventilazione protettiva. Il mismatch VA/Q è correlato sia all’estensione degli addensamenti polmonari che alle alterazioni della perfusione polmonare. In sostanza, più è grave il paziente con ARDS (sommando le disfunzioni polmonare e cardiocircolatoria), più aumenta il mismatch VA/Q, più aumenta la PaCO2.

L’ipercapnia è quindi un ottimo marker della gravità del paziente con ARDS.

Questo non esclude però che l’ipercapnia possa avere anche un effetto negativo diretto sulle funzioni dell’organismo. Il post di oggi è già lunghissimo, nel prossimo cercheremo di capire gli effetti biologici dell’ipercapnia, per poter finalmente discutere appropriatamente i risultati dello studio da cui abbiamo preso le mosse.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.
1) Nin N et al. Severe hypercapnia and outcome of mechanically ventilated patients with moderate or severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2017;43:200-8

Ipercapnia e ARDS, cambia qualcosa? Parte seconda: implicazioni cliniche.

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Nel post del 17/02/2018 abbiamo accennato ai risultati di uno studio che ha recentemente documentato un’associazione tra ipercapnia e mortalità nella ARDS (1). Abbiamo considerato che il disegno di questo studio è molto debole e che quindi si deve ragionare bene su questa associazione prima di attribuirle un rapporto causa-effetto.

Si è anche evidenziato come l’ipercapnia sia la conseguenza (e non la causa) di un grave mismatch ventilazione-perfusione, che determina un aumento dello spazio morto alveolare, un ben noto fattore di rischio per la mortalità nei pazienti con ARDS (2).

L’acidosi respiratoria sembra avere effetti clinici e fisiologici più positivi che negativi, come puoi vedere in sintesi nel post del 03/08/2013.

Considerando però l’eventualità di un impatto negativo dell’ipercapnia sull’outcome, analizziamo oggi solo la ripercussione che generalmente le viene attribuita come più frequente e grave: il cuore polmonare acuto, cioè lo scompenso cardiaco acuto destro indotto dal rapido incremento delle resistenze vascolari polmonari.

L’acidosi respiratoria nella ARDS determinerebbe infatti l’aumento delle resistenze vascolari polmonari, alla base del cuore polmonare acuto. Ma siamo sicuri che sia proprio così?

Lo studio clinico probabilmente determinante per supportare il ruolo dell’ipercapnia nella genesi dello scompenso cardiaco destro ha arruolato 11 pazienti con ARDS ventilati per 1 ora, in successione, con due* diverse impostazioni del ventilatore (3). Al termine di un periodo con “bassa frequenza respiratoria ” (VT 8.5 ml/kg x 15/min) il pH era mediamente 7.30 e la PaCO2 52 mmHg, dopo 1 ora con “basso volume corrente” (VT 5.3 ml/kg x 26/min) il pH diminuiva a  7.17 e la PaCO2 aumentava a 71 mmHg. Nella condizione di acidosi respiratoria più grave si osservava una riduzione dell’indice cardiaco ed una dilatazione del ventricolo destro rispetto al ventricolo sinistro (aumento del rapporto tra le aree telediastoliche).

Questo studio presenta però un limite rilevante (del quale non sento normalmente parlare) che non consente di supportare che l’ipercapnia sia la causa del cuore polmonare acuto. Infatti durante la ventilazione “più ipercapnica” è stata anche raddoppiata la PEEP rispetto al ventilazione “meno ipercapnica”! E sappiamo bene che l’incremento della PEEP può dare di per sè un contributo decisivo all’aumento del postcarico del ventricolo destro e favorirne quindi la dilatazione.

Gli stessi autori dello studio sapevano bene come stavano le cose, tant’è che la loro conclusione dello studio è, piuttosto  incredibilmente, la seguente: “Increasing PEEP at constant Pplat during severe ARDS induces acute hypercapnia that may impair RV function and decrease cardiac index.” Affermano cioè che l’incremento della PEEP è la causa dell’ipercapnia (!!!), la quale a sua volta può peggiorare la funzione del ventricolo destro e ridurre la portata cardiaca… Se la causa dell’ipercapnia è stato l’aumento della PEEP, che bisogno c’era di modificare anche volume corrente e frequenza respiratoria per dimostrare gli effetti dell’ipercapnia? E perchè attribuire gli effetti sul cuore destro all’ipercapnia e non alla PEEP? Da notare peraltro che nello studio erano arruolati pazienti con già in atto scompenso cardiocircolatorio (stroke volume quasi la metà del normale) e dilatazione del cuore destro (mediamente il rapporto tra le aree telediastoliche del ventricolo destro e sinistro era 0.64). Mi viene il dubbio che non fosse stata ottimizzata l’emodinamica prima dell’arruolamento nel trial clinico, un problema non da poco nell’interpretazione dei dati… (i pazienti con ARDS non sono solitamente in bassa portata se si fa un appropriato supporto cardiovascolare).

IL MESSAGGIO E’ SEMPRE LO STESSO: LA LETTERATURA NON VA CITATA, MA DEVE ESSERE LETTA CON ATTENZIONE E CAPITA. Costa tempo e fatica, ma è l’unico modo per imparare qualcosa.

Peraltro lo stesso gruppo di ricercatori ha successivamente dimostrato che il cuore polmonare acuto (come definito nella reference 3) non si associa ad un incremento di mortalità (4). Non sembra quindi, comunque, un problema determinante.

Da considerare infine che non è l’ipercapnia che genera ipertensione polmonare ma l’acidosi ad essa associata (5,6). Ne consegue che, relativamente alla possibile ipertensione polmonare, l’ipercapnia non è un problema se il pH tende al compenso metabolico. E questo avviene spesso nella ARDS, condizione in cui l’ipercapnia si instaura in maniera gradualmente progressiva.

A questo punto torniamo ad interpretare i risultati della reference 1 con una maggior consapevolezza.  Lo studio supporta effettivamente l’ipotesi che i pazienti ipercapnici avessero un maggior spazio morto, stimato con la ventilazione minuto necessaria per ottenere 40 mmHg di PaCO2 (VEcorr). Ne consegue, dal punto di vista fisiopatologico, che l’ipercapnia è la conseguenza dello spazio morto ed è quindi ovvio che i pazienti ipercapnici (PaCO2 ≥ 50 mmHg) abbiano una mortalità maggiore rispetto ai non ipercapnici. Un approccio forse più appropriato all’analisi avrebbe potuto essere la ricerca di associazione tra mortalità e spazio morto stimato (con il VEcorr) (cioè la variabile causale dal punto di vista fisiopatologico) e quindi l’aggiustamento per le altre variabili.

Nello studio di Nin e coll., la fuorviante ricerca dell’associazione diretta tra mortalità e ipercapnia porta a conclusioni paradossali ed irragionevoli: i pazienti ipercapnici, rispetto ai non ipercapnici, sono ventilati meno spesso con una ventilazione protettiva (30% vs 70%) (?), hanno mediamente una pressione di plateau di 3 cmH2O superiore (?), un PaO2/FIO2 peggiore (141 vs 185 mmHg) (?) ed hanno più frequentemente barotrauma (11% vs 6%) (?). Pensiamo che l’ipercapnia possa spiegare tutte queste differenze? Sono risultati chiaramente incomprensibili, a meno che non ci si apra all’interpretazione più logica: gli ipercapnici sono tali perchè hanno una malattia polmonare più grave, con maggior shunt e maggior spazio morto. In altre parole: non è l’ipercapnia che determina un aumento di mortalità, ma è la gravità della malattia che aumenta sia la probabilità di morte che la PaCO2. Da questa prospettiva tutto quadra: ben si capisce perchè i pazienti con ARDS più grave abbiano pressioni di plateau più elevate, PaO2/FIO2 inferiori, più frequente barotrauma, ipercapnia più grave e mortalità maggiore.

La risposta alla domanda del titolo “Ipercapnia e ARDS, cambia qualcosa?” direi possa essere tranquillamente: “no”. Anche i nuovi studi non supportano ragionevolmente un nesso casuale tra ipercania e mortalità.

Possiamo ora ragionevolmente concludere che:

  • l’ipercapnia (come del resto l’ipossiemia) è la conseguenza è non la causa di una maggior gravità del danno polmonare; non stupisce pertanto che ipercapnia ed ipossiemia si associno ad un incremento di mortalità;
  • l’ipercapnia non è “velenosa”, non produce cioè effetti tossici clinicamente rilevanti;
  • anche il cuore polmonare acuto, il più pubblicizzato presunto effetto negativo dell’ipercapnia, è ampiamente discutibile che sia indotto dall’ipercapnia (è mediato dall’acidosi) e, quando questo è presente, non si associa ad incremento della mortalità.

Riprendiamo a questo punto il caso di Giorgio, con cui inizia il post del 17/02/2018: non mi preoccupo della sua PaCO2 di 68 mmHg (con pH 7.36), ma sono ahimè consapevole che questo può essere per lui un fattore prognostico sfavorevole. Giorgio è certamente grave, ma non è l’abbasamento della PaCO2 che potrà migliorarne la possibilità di sopravvivenza. Anzi, potrei non fare il suo bene se mettessi in atto manovre che potrebbero esporlo a rischi aggiuntivi con il solo scopo di ridurre la PaCO2.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

* I pazienti sono anche sottoposti ad un terzo approccio ventilatorio (basso VT, bassa frequenza respiratoria e riduzione dello spazio morto strumentale) che per semplcità non prendiamo in considerazione in questo post.

Bibliografia

1) Nin N et al. Severe hypercapnia and outcome of mechanically ventilated patients with moderate or severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2017;43:200-8

2) Nuckton TJ et al. Pulmonary dead-space fraction as a risk factor for death in the acute respiratory distress syndrome. N Engl J Med 2002;346:1281-6

3) Mekontso Dessap A et al. Impact of acute hypercapnia and augmented positive end-expiratory pressure on right ventricle function in severe acute respiratory distress syndrome. Intensive Care Med 2009; 35:1850-8

4) Mekontso Dessap A et al. Acute cor pulmonale during protective ventilation for acute respiratory distress syndrome: prevalence, predictors, and clinical impact. Intensive Care Med 2016; 42:862-70

5) Enson Y et al. The influence of hydrogen ion concentration and hypoxia on the pulmonary circulation. J Clin Invest 1964;43:1146-62

6) Weber T et al. Tromethamine buffer modifies the depressant effect of permissive hypercapnia on myocardial contractility in patients with acute respiratory distress syndrome. Am J Respir Crit Care Med 2000; 162:1361–5

Ventilazione non-invasiva e BPCO riacutizzata: non è la panacea!

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La ventilazione non-invasiva è ritenuta il trattamento di prima scelta nell’insufficienza respiratoria secondaria a riacutizzazione di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Questa è opinione comune ed anche una raccomadazione forte della recente ed autorevole linea guida sulla ventilazione non-invasiva di European Respiratory Society/American Thoracic Society (ERS/ATS) (1): “We recommend bilevel NIV for patients with ARF leading to acute or acute-on-chronic respiratory acidosis ( pH ⩽7.35) due to COPD exacerbation. (Strong recommendation, high certainty of evidence.)“.

La stessa raccomandazione è stata proposta qualche anno prima anche dalla linea guida della Canadian Critical Care Society (2): “We recommend the use of NPPV in addition to usual care in patients who have a severe exacerbation of COPD (pH < 7.35 and relative hypercarbia). Grade 1A

Non ci sono proprio dubbi quindi e, questa volta, mi sento di condividere pienamente queste raccomadazioni: la riacutizzazzione di BPCO è trattata in maniera appropriata con la ventilazione non-invasiva

Tuttavia nella mia pratica clinica quotidiana ho regolarmente pazienti con riacutizzazione di BPCO che sono intubati e sottoposti a ventilazione invasiva. Come conciliare questa semplice osservazione con quanto quanto finira affermato? Sbaglio qualcosa oppure le raccomandazioni delle linee guida devono essere commentate ed approfondite?

Esistono casi in cui i pazienti con riacutizzazione di BPCO devono essere intubati e ventilati invasivamente? Quando dobbiamo considerare fallita la ventilazione non-invasiva in questo tipo di pazienti? La risposta a queste domande è fondamentale per capire quando non utilizzare (o smettere di utilizzare) la ventilazione non-invasiva pur nella sua indicazione più appropriata.

Innanzitutto dobbiamo considerare che la scelta della ventilazione non-invasiva è condizionata dal livello di gravità di riacutizzazione di BPCO. La linea guida ERS/ATS (1) cita a supporto della propria raccomandazione 24 studi. Nella quasi totalità dei casi (22 su 24), la ventilazione non-invasiva era confrontata all’ossigenoterapia. La raccomadazione della linea guida canadese è esplicitamente rivolta al confronto tra ventilazione non-invasiva ed ossigenoterapia ed analizza 14 trial randomizzati e controllati (2). Ne concludiamo quindi che le raccomandazioni precedenti vanno intese più correttamente in questo modo: la ventilazione non-invasiva deve essere preferita all’ossigenoterapia (non all’intubazione tracheale). Infatti la linea guida ERS/ATS nelle considerazioni per l’implemetazione dice: “Bilevel NIV should be considered when the pH is ⩽7.35, PaCO2 is >45 mmHg and the respiratory rate is >20–24 breaths/min despite standard medical therapy.

Pensiamo a chi conduce uno studio controllato e randomizzato su BPCO riacutizzati ed assegna casualmente i pazienti alla ventilazione non-invasiva o all’ossigenoterapia: evidentemente deve arruolare pazienti che NON abbiano la NECESSITA‘ di essere ventilati, perchè altrimenti sarebbe un crimine assegnarli all’ossigenoterapia. Dobbiamo quindi pensare a pazienti che potrebbe essere lecito ventilare ma potrebbe anche non essere necessario. Questo è confermato dai criteri di inclusione nei trial clinici, che solitamente sono, tra gli altri, un pH < 7.35 con frequenza respiratoria > 20-30/min: quindi pazienti con insufficienza respiratoria lieve-moderata (dal punto di vista del rianimatore). In questi pazienti la ventilazione non-invasiva è da preferire alla ossigenoterapia perchè riduce la probabilità di intubazione e la mortalità. Da notare che da questi studi sono esclusi a priori i pazienti che non tollerano la ventilazione non-invasiva. Dobbiamo quindi pensare che per essere efficace la ventilazione non-invasiva abbia probabilmente bisogno di essere fatta efficacemente in pazienti collaboranti.

Nella pratica clinica la ventilazione non-invasiva viene però presa in considerazione nella riacutizzazione di BPCO anche per situazioni più gravi, cioè quando la ventilazione meccanica (invasiva o non-invasiva) è assolutamente necessaria.

La ventilazione non-invasiva è efficace anche in questi casi? Ci sono studi che ne supportano l’utilizzo? Cosa dicono le linee guida?

Abbiamo a disposizione un unico studio controllato “serio” in pazienti con grave riacutizzazione di BPCO in cui i pazienti siano stati randomizzati per la ventilazione non-invasiva o per l’intubazione tracheale+ventilazione invasiva (3). In questo caso erano arruolati pazienti con una condizione più grave, con pH < 7.20 o frequenza respiratoria ≥ 35/min. In questi pazienti non vi era differenza significativa di mortalità tra ventilazione non-invasiva (26%) ed intubazione (19%) nè di durata della degenza in Terapia Intensiva (22 vs. 21 giorni in media). Un dato da non trascurare è però l’elevata frequenza di fallimento della ventilazione non-invasiva (il 52% dei pazienti ad essa assegnati è stato alla fine intubato) e l’elevata mortalità nei pazienti con fallimento della ventilazione non-invasiva (42%).

In altre parole, nei pazienti con grave riacutizzazione di BPCO e necessità di supporto ventilatorio, la ventilazione non-invasiva non offre rilevanti vantaggi clinici rispetto all’intubazione, fallisce una volta su due e quando fallisce la mortalità è molto elevata. Visti da un altro punto di vista, gli stessi numeri ci dicono però che circa la metà di questi pazienti evita efficacemente l’intubazione tracheale.

Cosa concludiamo quindi per i pazienti con grave riacutizzazione di BPCO (quelli che dobbiamo necessariamente ventilare)? Ventilazione non-invasiva o intubazione? I dati a supporto della ventilazione non-invasiva abbiamo visto essere tutt’altro che decisivi. Ed infatti linee guida differenti offrono raccomandazioni differenti. La linea guida (ERS/ATS) (1) raccomada comunque per un tentativo di ventilazione non-invasiva: “We recommend a trial of bilevel NIV in patients considered to require endotracheal intubation and mechanical ventilation, unless the patient is immediately deteriorating. (Strong recommendation, moderate certainty of evidence.)“. Al contrario la linea guida canadese (2) non prende posizione: “We make no recommendation about the use of NPPV versus intubation and conventional mechanical ventilation in patients who have a severe exacerbation of COPD that requires ventilator support, because of insufficient evidence“. Stesse fonti bibliografiche, conclusioni diverse, entrambe proposte con certezza. Quindi incertezza.

A mio parere può essere una scelta di buon senso fare un primo tentativo di ventilazione non-invasiva nei pazienti con grave riacutizzazione di BPCO se sono stabili dal punto di vista cardiocircolatorio, non hanno ipossiemia grave con infiltrati polmonari (terreno minato per la ventilazione non-invasiva) e se hanno uno stato di coscienza normale o sono facilmente risvegliabili. Si deve essere consapevoli che più è basso il pH e maggiore è il rischio di fallimento della ventilazione non-invasiva, e che quindi il paziente deve essere strettamente monitorato con la possibilità di una rapida intubazione tracheale qualora non migliori (“the lower the pH, the greater risk of failure, and patients must be very closely monitored with rapid access to endotracheal intubation and invasive ventilation if not improving.“)(1).

Domanda decisiva: quanto bisogna aspettare il miglioramento prima di passare all’intubazione? Nel BPCO riacutizzato è una partita di poche ore (non di giorni!!!): Conti e coll. (3) hanno intubato il 75% dei fallimenti della ventilazione non-invasiva tra 2 e 6 ore dal suo inizio, la linea guida ERS/ATS propone una finestra temporale di 1-4 ore per cogliere i miglioramenti che ci attendiamo dalla ventilazione non-invasiva (1). Sappiamo che già dopo un paio d’ore dall’inizio della ventilazione non-invasiva la probabilità di intubazione è molto elevata se il pH rimane inferiore a 7.25-7.30, se persiste uno stato di coscienza alterato, se la frequenza respiratoria non si riduce sotto i 30/min (4) (figura 1).

Figura 1

Ne consegue che il fallimento della ventilazione non-invasiva dovrebbe essere identificato il più precocemente possibile, senza incapponirsi in ostinati ed estenuanti prolungamenti se non si assiste ad un rapido miglioramento.

Un’ultima considerazione spesso trascurata: modalità e criteri di impostazione della ventilazione non-invasiva nella riacutizzazione di BPCO. E’ incredibile come spesso si parli di ventilazione non-invasiva senza definirne i dettagli. Mutatis mutandis, è come se si parlasse dell’efficacia della terapia antibiotica nelle polmoniti comunitarie, trascurando di definire quali antibiotici usare ed a quale dosaggio…

Questo aspetto è già stato trattato in precedenza (vedi ad esempio il post del 30/04/2017), qui per necessità di sintesi proponiamo una ricetta semplificata ma ragionevole. I trial clinici sulla ventilazione non-invasiva nel BPCO riacutizzato hanno in comune un medesimo razionale nella scelta di modalità di ventilazione e parametri ventilatori. E’ utilizzata una ventilazione pressometrica (l’onda di flusso decrescente è preferibile nel paziente con dispnea) con elevato supporto inspiratorio (per mettere a riposo i muscoli respiratori) e bassa PEEP (compromesso tra eventuale riduzione di carico soglia ed incremento del probabilmente già elevato volume polmonare di fine espirazione). Quindi può andare bene una ventilazione a pressione di supporto o una assistita controllata pressometrica, con un supporto inspiratorio fino al massimo tollerato dal paziente (con un volume corrente di almeno 7-8 ml/kg di peso ideale) che porti ad ottenere una frequenza respiratoria inferiore a 25/min, associata ad una PEEP di 3-5 cmH2O.

Come sempre, concludiamo riassumendo in pochi punti la strategia della ventilazione non-invasiva nella riacutizzazione di BPCO (queste considerazioni NON sono valide per altre forme di insufficienza respiratoria):

  • la ventilazione non-invasiva deve essere il primo approccio al paziente con pH <7.35, a patto che sia stabile dal punto di vista cardiovascolare, che non vi sia una ipossiemia grave o alterazioni rilevanti dello stato di coscienza;
  • il ventilatore dovrebbe essere impostato con ventilazione pressometrica (onda di flusso decrescente), supporto inspiratorio elevato (per ottenere una frequenza respiratoria < 25/min con volume corrente) e PEEP 3-5 cmH2O.
  • l’intubazione tracheale deve sostituire la ventilazione non invasiva entro qualche ora dal suo inizio se non si progredisce chiaramente verso la normalizzazione del pH, se non si riduce dispnea e frequenza respiratoria, se persistono le alterazioni del sensorio. Proseguire in queste condizioni la ventilazione non-invasiva non significa essere “fighi” ma temerari;
  • nei casi in cui il pH è molto basso (<7.20-7.25), in cui si hanno alterazioni del sensorio o quando vi sia associata una grave ipossiemia, può essere ragionevole un breve iniziale trial di ventilazione non-invasiva, a patto che si passi immediatamente all’intubazione tracheale in caso di risposta clinica insoddisfacente.

Come sempre, un sorriso agli amici di ventilab.

Bibliografia.

  1. Rochwerg B et al. Official ERS/ATS clinical practice guidelines: noninvasive ventilation for acute respiratory failure. Eur Respir J 2017; 50: 1602426
  2. Keenan SP et al. Clinical practice guidelines for the use of noninvasive positive-pressure ventilation and noninvasive continuous positive airway pressure in the acute care setting. CMAJ 2011; 183:E195-214
  3. Conti G et al. Noninvasive vs. conventional mechanical ventilation in patients with chronic obstructive pulmonary disease after failure of medical treatment in the ward: a randomized trial. Intensive Care Med 2002; 28:1701-7
  4. Confalonieri M et al. A chart of failure risk for noninvasive ventilation in patients with COPD exacerbation. Eur Respir J 2005;25:348-55

Sedazione ed intubazione tracheale: evadere dai luoghi comuni

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La sedazione nel paziente con intubazione tracheale è una profezia che si autoavvera. Esiste infatti la credenza che il paziente intubato debba ricevere una qualche forma di sedazione per poter tollerare la presenza del tubo tracheale. E da questa convinzione, che nasce da un pre-giudizio, si giunge alla somministrazione routinaria di sedazione, la quale a sua volta rende paziente e curanti dipenti da essa.
Se ripenso alla mia pratica clinica quotidiana, ed a quanto si può leggere nella letteratura medica, constato invece che l’eliminazione della sedazione nel paziente intubato non solo è 1) possibile ma 2) migliora la qualità e  3) aumenta l’efficacia delle cure intensive.

Non sedare il paziente con intubazione tracheale è possibile

Sembra impossibile solo a chi non lo fa. E’ assolutamente normale che il paziente intubato tolleri serenamente il tubo tracheale anche senza sedazione. Provare per credere. Per me, da almeno una quindicina di anni, è la regola vedere pazienti con insufficienza respiratoria e ventilazione meccanica che sono tranquilli e lucidamente consapevoli di sè e della propria condizione, con l’assenza di qualsiasi forma di sedazione.

Ci possono essere delle eccezioni, che si limitano però a pazienti con agitazione o delirium ipercinetico. E’ peraltro utile ricordare che il miglior modo per facilitare l’insorgenza di delirium è somministrare farmaci sedativi… Nei pazienti con agitazione, la somministrazione di sedativi può essere appropriata e modulata per ridurre l’agitazione (ad esempio per ottenere una RASS di 0 o 1), evitando se possibile la classica sedazione con il paziente assopito (RASS -1 o inferiore) (figura 1) .

Figura 1. Richmond Agitation-Sedation Scale (RASS)

 

Non sedare il paziente con intubazione tracheale migliora la qualità della cura

La qualità della Terapia Intensiva senza sedazione migliora umanamente: il paziente non è più un corpo senz’anima, ma riconquista la struttura e la dignità di persona, di un essere umano con pensieri e sentimenti, speranze e paure, che entra in relazione con i propri affetti e con le persone che gli prestano assistenza e cura. Smette di essere “il numero 5” e torna ad essere “Giovanna” o “Marco”, condizione quasi impossibile quando manca l’interazione personale, come tipicamente avviene nel paziente sedato. “Giovanna” o “Marco” sono anche più impegnativi da gestire del “numero 5”, hanno esigenze e difficoltà da assecondare che un corpo dormiente non pone. Tutto questo aumenta il carico di lavoro, fisico ed emotivo, del personale della Terapia Intensiva, in particolare degli infermieri. Per gli infermieri la gestione del paziente non sedato è segno tangibile di una elevata capacità professionale ed umana. E’ qui che si afferma una professionalità non rivendicata a priori ma dimostrata come reale valore. Senza una convinta adesione degli infermieri, il paziente senza sedazione non può andare lontano. Ho la possibilità di trattare regolarmente pazienti intubati e non sedati grazie all’eccellente equipe infermieristica del reparto. Questa condizione non nasce per caso, ma da una lunga opera di educazione e di attrazione di persone con un elevato spessore umano e professionale.

Non sedare il paziente con intubazione tracheale aumenta l’efficacia del trattamento

Per capire l’efficacia clinica della scelta di minimizzare la sedazione diamo uno sguardo a ciò che ci dice la letteratura medica.

La ventilazione meccanica invasiva inizia con una anestesia generale per consentire l’intubazione tracheale. Al termine del tempo necessario per far cessare l’effetto clinico dei farmaci utilizzati (al massimo un’ora per ottenere il recupero completo della miorisoluzione), si può decidere se risvegliare il paziente o se proseguire per un certo periodo con la somministrazione di sedativi per ottenere una sedazione profonda più prolungata (una RASS uguale o inferiore a 3, vedi tabella 1). Quando possibile (non sempre lo è) il risveglio precoce dovrebbe essere preferibile. Esistono infatti studi che documentano una associazione  tra il mantenimento della sedazione nei primi giorni di ventilazione meccanica e la mortalità: in altri termini chi viene mantenuto sedato nei primi giorni ha una mortalità più elevata di chi viene risvegliato, anche “pesando” il dato per i confondenti noti (1-3).

Evitare la sedazione riduce la durata della ventilazione meccanica e la durata della degenza in Terapia Intensiva ed in ospedale (con la tendenza anche alla riduzione della mortalità in Terapia Intensiva) (4). Nello studio citato, nei pazienti senza sedazione potevano essere somministrati propofol, oppioidi o aloperidolo in caso di necessità, altrimenti i pazienti erano lasciati senza alcun sedativo di fondo (un approccio molto simile a quello che seguo personalmente). Esistono molti altri dati (che per brevità non analizziamo) che supportano il concetto che la riduzione della sedazione si associa alla riduzione della durata della ventilazione meccanica. Se qualcuno fosse interessato, ne potremo discutere nei commenti.

Figura 2 (tratta da Nseir S et al. Intensive care unit-acquired infection as a side effect of sedation. Crit Care 2010; 14:R30)

 

La sedazione favorisce l’insorgenza delle infezioni, prolungando l’esposizione ai fattori di rischio per le infezioni (4), quali la microaspirazione, la riduzione della motilità gastrointesinale, le perdita della regolazione della microcircolazione e l’alterazione della risposta immunitaria (figure 2, 3 e 4).

Figura 3 (tratta da Nseir S et al. Intensive care unit-acquired infection as a side effect of sedation. Crit Care 2010; 14:R30)

Il possibile aumento dell’esposizione alle infezioni è certamente un problema rilevante nel trattamento dei pazienti critici, associandosi, oltre al possibile impatto clinico, anche alla problematica dell’emergenza della multiresistenza batterica agli antibiotici che necessariamente devono essere utilizzati per il trattamento delle infezioni.

Figura 4 (tratta da Nseir S et al. Intensive care unit-acquired infection as a side effect of sedation. Crit Care 2010; 14:R30)

Evitare la somministrazione routinaria della sedazione ha un effetto favorevole anche sulla funzione renale, aumentando la diuresi e riducendo il numero di pazienti con disfunzione renale (6).

La somminsitrazione notturna di sedativi (propofol) per mantenere una RASS di -3 (vedi sempre la tabella 1), fatta nel tentativo di favorire il sonno, in realtà peggiora la qualità del sonno rispetto all’assenza di sedazione, riducendo numero e durata dei periodi di sonno REM (7).

Sedare i pazienti almeno li protegge dagli effetti sulla sfera psichica associati alla malattia ed alla degenza in Terapia Intensiva? Sembra proprio di no, nemmeno questo. Alcuni studi mostrano che, a distanza di mesi dal ricovero in Terapia Intensiva, i pazienti sedati e quelli non sedati presentano lo stesso livello di Post Traumatic Stress Disorder (cioè ansietà, depressione, incubi, …) (8,9). Uno studio retrospettivo (quindi da valutare con cautela) addirittura trova un’associazione tra Post Traumatic Stress Disorder a sei mesi e la somministrazione di propofol in fase acuta nei pazienti con trauma (10).

Conclusioni

Abbiamo visto che la sedazione non è necessaria per gestire un paziente intubato. Ed abbiamo visto che si può associare a conseguenze cliniche sfavorevoli. La conclusione ovvia è che dovremmo usare i sedativi solo quando necessario per la gestione clinica (trauma cranico grave, ARDS grave, ecc.) o per sedare pazienti gravemente agitati (es. RASS ≥ 2-3).

Penso sia utile essere consapevoli di alcune resistenze a questa strategia.

Una prima resistenza viene dall’abitudine di medici ed infermieri, che hanno ereditato una cultura “di altri tempi”, quando esistevano modalità ed approcci “arcaici” di ventilazione meccanica, quando i pazienti erano più giovani e le degenze più brevi (in poco tempo le cose andavano o bene o male). Oggi, con possibilità di ventilazione più sofisticate, spesso non abbiamo bisogno della sedazione per “adattare” il paziente al ventilatore; l’indicazione al ricovero in Terapia Intensiva si è estesa anche a pazienti anziani ed a condizioni di estrema gravità che possono trovare soluzione solo in tempi lunghi di cura. Dobbiamo necessariamente cambiare la mentalità sulla sedazione. I cambi di mentalità sono sempre lenti, ma se si dove arrivare, prima o poi ci si arriva. Il problema sta nel non vedere lucidamente la direzione da percorrere.

Una seconda resistenza nasce dall’equivoco sul significato dell’ospedale senza dolore. Bisognerebbe essere consapevoli che, se mal interpretato, l’ospedale senza dolore rischia di diventare un ossimoro. L’ospedale è un luogo per la cura della malattia, condizione di sofferenza psichica e fisica. E’ certamente compito del medico lenire farmacologicamente questa sofferenza a patto di non danneggiare la persona curata. Le cure palliative sono l’unico ambito dove la cura della sofferenza passa davanti a tutto. Negli altri contesti di cura, il trattamento farmacologico della sofferenza deve essere bilanciato con gli effetti sfavorevoli. Spero che sia venuto almeno il dubbio che quel paziente mezzo addormentato dai sedativi, che apparentemente non soffre,  possa pagare questa condizione con una maggior possibilità di prolungare la ventilazione meccanica, di avere infezioni, di avere insufficienza renale, di morire. Questi concetti devono essere condivisi con le famiglie dei nostri pazienti, sempre comprensibilmente preoccupate di evitare ogni sofferenza al proprio caro, ma spesso non consapevoli del costo biologico e clinico che questa scelta comporta.

Non dimentichiamo infine che possiamo essere esposti al rischio di utilizzare sedativi anche grazie all’informazione scientifica di chi li produce. Informazione scientifica spesso utile e preziosa per l’aggiornamento professionale, ma non sempre disinteressata.

Un sorriso agli amici di ventilab e buone vacanze!

 

Bigliografia

  1. Shehabi Y et al. Early intensive care sedation predicts long-term mortality in ventilated critically ill patients. Am J Respir Crit Care Med 2012; 186:724-31
  2. Shehabi Y et al. Sedation depth and long-term mortality in mechanically ventilated critically ill adults: a prospective longitudinal multicentre cohort study. Intensive Care Med 2013; 39:910-8
  3. Balzer F et al. Early deep sedation is associated with decreased in-hospital and two-year follow-up survival. Crit Care 2015; 19:197
  4. Strøm T et al. A protocol of no sedation for critically ill patients receiving mechanical ventilation: a randomised trial. Lancet 2010; 375:475-80
  5. Nseir S et al. Intensive care unit-acquired infection as a side effect of sedation. Crit Care 2010; 14:R30
  6. Strøm T et al. Sedation and renal impairment in critically ill patients: a post hoc analysis of a randomized trial. Crit Care 2011; 15:R119
  7. Kondili E et al. Effects of propofol on sleep quality in mechanically ventilated critically ill patients: a physiological study. Intensive Care Med 2012; 38:1640-6
  8. Treggiari MM et al. Randomized trial of light versus deep sedation on mental health after critical illness. Crit Care Med 2009; 37:2527-34
  9. Strøm T et al. Long-term psychological effects of a no-sedation protocol in critically ill patients. Crit Care 2011; 15:R293
  10. Usuki M et al. Potential impact of propofol immediately after motor vehicle accident on later symptoms of posttraumatic stress disorder at 6-month follow up: a retrospective cohort study. Crit Care 2012; 16:R196

Tracheostomia precoce o tardiva: la risposta è nelle meta-analisi? La qualità della risposta dipende dalla qualità della domanda…

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Rinaldo è un uomo di 74 anni che da una settimana è sottoposto a ventilazione meccanica invasiva per una riacutizzazione di BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) associata ad una polmonite comunitaria. Quando si riduce il supporto inspiratorio sotto i 10 cmH2O accusa immediatamente dispnea ed ha respiro rapido e superficiale.

Durante la definizione del piano di cura si discute se procedere alla tracheotomia il giorno successivo oppure rimandare la decisione al completamento di almeno due settimane di ventilazione meccanica.

Che atteggiamento ti sembra più appropriato? Ritieni sia giustificata la tracheotmia dopo la prima settimana di ventilazione in assenza di una ragionevole previsione di estubazione nei giorni successivi? Oppure pensi che siano necessarie almeno un paio di settimane di intubazione tracheale prima di arrivare alla proposta di tracheotomia?

In Italia la tracheotomia viene eseguita mediamente dopo 9 giorni dall’inizio della ventilazione meccanica (rapporto Prosafe 2017), con la tendenza a procrastinarla rispetto a qualche anno prima (nel 2011 la si eseguiva mediamente dopo 7 giorni, rapporto Prosafe 2011).

Quale è il timing preferibile per la tracheotomia alla luce delle nostre conoscenze mediche?

Su questo argomento è spesso citata una meta-analisi piuttosto recente (del 2015) (1). Ricordo che le meta-analisi sono analisi quantitative che mettono insieme i risultati di tutti gli studi pubblicati su uno stesso argomento e sono ritenute dai più il massimo livello di evidenza in medicina, un vero totem della sedicente (cioè che se lo dice da sola) Evidence-Based Medicine.

Leggiamo subito le conclusioni dell’abstract della meta-analisi citata, approccio frequente nella Evidence-based Medicine di tutti i giorni: “We found no evidence that early (within 10 days) tracheostomy reduced mortality, duration of mechanical ventilation, intensive care stay, or VAP. Early tracheostomy leads to more procedures and a shorter duration of sedation.” Il problema sembra risolto: la tracheotomia fatta prima dei 10 giorni aumenta il numero di tracheotomie senza offrire nessun beneficio (a parte la riduzione della durata della sedazione). Quindi una invasività evitabile se si attendono almeno 10 giorni prima di prendere una decisione. Nel caso di Rinaldo, quindi dovremmo attendere prima di prendere una decisione.

Esiste però anche un’altra meta-analisi sullo stesso argomento, peraltro pubblicata nello stesso anno (2). Ci aspettiamo evidentemente che dica la stessa cosa (stessa metodologia, stesso argomento), ma nella conclusione dell’abstract (la summa della Evidence-based Medicine) leggiamo: “This updated meta-analysis reveals that early tracheotomy is associated with higher tracheotomy rates and better outcomes, including more ventilator-free days, shorter ICU stays, less sedation, and reduced long-term mortality, compared to late tracheotomy.“. Questa meta-analisi conferma che la tracheotomia precoce aumenta il numero di tracheotomie che si fanno ai nostri pazienti e riduce i tempi di sedazione, ma, contrariamente alla precedente, documenta un miglioramento di importanti esiti clinici associati a questa scelta: meno giorni di ventilazione meccanica, degenze più brevi in Terapia Intensiva e riduzione della mortalità a lungo termine. Pensando a Rinaldo, a questo punto dovremmo procedere subito alla tracheotomia.

Ma, alla fine, la tracheotomia a Rinaldo la facciamo subito o aspettiamo? Perchè queste differenze paradossali tra le due meta-analisi? Come risovere il dilemma?

Le due meta-analisi danno risultati differenti perchè hanno incluso studi differenti. Strano ma vero. Nove studi sono stati inclusi in entrambe le meta-analisi, ma altri 8 sono analizzati solo o in una o nell’altra. Un primo elemento di prudenza verso le meta-analisi: in teoria gli studi analizzati dovrebbero essere scelti con metodologia “scientifica” che dovrebbe portare ad una selezione imparziale. Ma in realtà, come abbiamo visto, il risultato non è sempre questo…

Ma il vero, grande peccato originale delle meta-analisi, frutto dell’ingenuo entusiasmo di dare certezze, è che raggruppano strategie cliniche in realtà differenti in un’unico gruppo, facendo finta che siano uguali. Nello nostro caso specifico sono analizzati insieme sotto lo slogan “tracheotomia precoce” studi in cui “precoce” significa “2 giorni dall’inizio della ventilazione meccanica” e studi in cui “precoce” significa “10 giorni dopo l’inizio della ventilazione”. Qualunque clinico sa che una tracheotomia dopo 2 (due!) giorni di ventilazione meccanica ha implicazioni completamente diverse da una dopo 10 giorni di ventilazione. Sotto lo slogan “tracheotomia tardiva” sono analizzati congiuntamenti studi che definiscono “tardivasia la tracheotomia eseguita dopo 6 giorni di ventilazione meccanica (sì, proprio 6, che per altri studi è invece un timing da trachetomia precoce) che dopo 28 (ventotto!) giorni di ventilazione meccanica.

Tra le due meta-analisi citate, quella di Hosokawa (2) (quella favorevole alla tracheostomia precoce) in realtà presenta anche una sotto-analisi che analizza (seppur in modo opinabile) gli effetti di strategie di durata simile del periodo di ventilazione meccanica precedente alla tracheotomia. Per questo motivo sarebbe da preferire (oltre per il fatto che includere uno studio di rilievo del 2014 (3) non considerato dalla meta-analisi di Szakmany (1)).

Ma il problema da cui siamo partiti era: a Rinaldo proponiamo la tracheotomia dopo la prima o dopo la seconda settimana di ventilazione meccanica? Dei 17 studi originali variamente inclusi nelle due meta-analisi, solo 2 studi confrontano proprio questi timing delle tracheotomie (3,4). La risposta alla nostra domanda potrebbe essere aiutata dalle conoscenze che possiamo acquisire dalla attenta lettura di questi due studi. Lo studio di Terragni (4) ha però tra i criteri di esclusione la presenza di BPCO o di polmonite, condizioni entrambe presenti in Rinaldo. Quindi non prenderemo in considerazione i suoi risultati per supportare una decisione su Rinaldo.

Lo studio di Diaz-Prieto (3) ha un protocollo piuttosto complesso (che per brevità non descrivo) ma che consente di verificare l’effetto della tracheotomia entro 8 giorni o dopo 14 giorni di ventilazione meccanica. In questo trial preferisco leggere l’analisi per protocollo, che ha una metodologia molto simile a quella utilizzata nella comune pratica clinica (nei commenti, se qualcuno fosse interessato, possiamo vedere il perchè). I risultati, espressi nel dettaglio in figura 1, supportano che la tracheotomia entro gli 8 giorni (se clinicamente appropriata, vedi il protocollo dello studio) riduce i giorni di ventilazione meccanica, la degenza in Terapia Intensiva, la durata della sedazione e molto probabilmente anche la mortalità ospedaliera ed a 90 giorni.

Figura 1

A questo punto mi sembra ragionevole proporre a Rinaldo la tracheotomia dopo la prima settimana di ventilazione, visto che non sembra prevedibile una estubazione nei giorni successivi.

Il post di oggi ci può aiutare a comprendere perchè la letteratura medica non produce certezze, ma “solo” (e non è poco) progresso nelle consocenze. Penso che questa prospettiva sia un modo sano di approcciarsi al metodo scientifico applicato alla medicina (che scienza non è) (5). Evitiamo di sbandierare acriticamente le conclusioni degli abstract come se fossero certezze. Non possiamo credere alla favola che, con una ricerca bibliografica, si possa diventare esperti di argomenti sui quali non siamo competenti. Dobbiamo imparare a leggere e studiare criticamente la letteratura medica. Ci vuole tempo, pazienza, competenza, insomma un lavoraccio. Ma, come dice il saggio, ogni lungo viaggio inizia con un primo passo: prima si inizia, prima si arriva. Progressivamente potremo capire sempre meglio i problemi che affrontiamo ogni giorno, e magari offrire soluzioni appropriate ed originali per ogni singolo caso.

Riassumendo i punti principali:

  • la tracheotomia dopo una settimana di ventilazione meccanica appare giustificata in assenza di una ragionevole aspettativa di una estubazione nei giorni successivi;
  • gli studi clinici devono essere letti con attenzione (soprattutto nei materiali e metodi) e non citati a pappagallo le conclusioni dei loro abstract. Un risultato ha un senso solo ed esclusivamente se siamo consapevoli delle condizioni in cui è stato ottenuto;
  • le meta-analisi possono essere fuorvianti. Se ne possono accettare le conclusioni solo dopo averle lette con attenzione, guardando anche la letteratura originale a cui fanno riferimento.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia

  1. Szakmany T et al. Effect of early tracheostomy on resource utilization and clinical outcomes in critically ill patients: meta-analysis of randomized controlled trials. Br J Anaesth 2015; 114:396-405
  2. Hosokawa K et al. Timing of tracheotomy in ICU patients: a systematic review of randomized controlled trials. Crit Care 2015; 19:424
  3. Diaz-Prieto A et al. A randomized clinical trial for the timing of tracheotomy in critically ill patients: factors precluding inclusion in a single center study. Crit Care 2014; 18:585
  4. Terragni PP et al. Early vs late tracheotomy for prevention of pneumonia in mechanically ventilated adult ICU patients: a randomized controlled trial. JAMA 2010; 303:1483-9
  5. Cosmacini G. La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base. Raffaello Cortina Editore, 2008

 

Come impostare la ventilazione meccanica nello shock ipovolemico.

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Può capitare di iniziare la ventilazione meccanica in un paziente con shock ipovolemico. Quando pensiamo allo shock ipovolemico, ci viene subito in mente lo shock emorragico, con ipotensione grave causata dalla evidente perdita acuta di una notevole quantità di sangue. Non dimentichiamo però che esistono anche quadri più subdoli (e probabilmente più frequenti) di shock ipovolemico. Ad esempio pensiamo ad una persone che arriva in Pronto Soccorso dopo alcuni giorni di febbre, vomito e diarrea: non è difficile immaginare che anch’essa possa aver sviluppato una ipovolemia secondaria ad una grave disidratazione e che richieda gli stessi accorgimenti nella ventilazione meccanica che riserviamo allo shock emorragico.

 

Figura 1

Nella figura 1 è schematizzato l’apparato cardiocircolatorio. Il flusso di sangue che esce dal ventricolo sinistro è la portata cardiaca (cardiac output, CO) ed il flusso di sangue che ritorna all’atrio desto è il ritorno venoso (RV). E’ intuitivo che, all’equilibrio, la portata cardiaca ed il ritorno venoso siano uguali. E che quindi la riduzione del ritorno venoso implichi la diminuzione della portata cardiaca.

Il ritorno venoso all’atrio destro è spinto dalla pressione del sistema venulare, che dogmaticamente si assimila alla pressione sistemica media (Pms in figura 1). La pressione sistemica media è determinata sia dalla volemia che dal tono vascolare: la riduzione di uno dei due porta alla riduzione della pressione che spinge il ritorno venoso in atrio destro. In condizioni di ipovolemia, la riduzione della pressione sistemica media e del ritorno venoso può essere limitata grazie all’aumento del tono simpatico (tipico delle condizioni di shock) che incrementa il tono vascolare. In questa condizione a volte è inevitabile dover indurre un’anestesia generale, ad esempio per iniziare la ventilazione invasiva o per eseguire un intervento chirurgico urgente. Questo è un momento particolarmente delicato perchè determina una marcata riduzione del tono simpatico, che in alcuni (per fortuna rari) casi può essere fatale: ricordiamo che l’utilizzo di farmaci vasostrittori può essere salvavita in queste situazioni.

Se la pressione sistemica media è la forza che facilita il ritorno venoso, la pressione in atrio destro (la pressione venosa centrale, PVC in figura 1) ostacola il ritorno venoso. La ventilazione meccanica gioca un ruolo rilevante nella riduzione del ritorno venoso in condizioni di ipovolemia. L’aumento della pressione intratoracica determina un aumento anche della pressionei nei vasi venosi intratoracici e quindi della pressione venosa centrale. Ne consegue che la differenza di pressione tra vene ed atrio destro si riduce e quindi anche il ritorno venoso (vedi nota) (figura 2).

Figura 2

L’effetto della PEEP sul ritorno venoso in questi casi è drammatico. In un modello animale di shock emorragico, l’eliminazione della PEEP determina il miglioramento di portata cardiaca e pressione arteriosa, e consente la sopravvivenza di quasi tutti gli animali. Viceversa mantenere una PEEP di 5 cmH2O o l’incremento della stessa a 10 cmH2O causa la morte di tutti gli animali prima dell’inizio della fase di riespansione volemica (1).

Meno importante è l’effetto del volume corrente, la cui riduzione ha un impatto trascurabile su emodinamica e sopravvienza (2).

L’importanza quasi esclusiva della PEEP è prevedibile: la PEEP è un ostacolo al ritorno venoso che rimane per tutto il ciclo respiratorio, mentre l’espirazione del volume corrente consente una ripresa del ritorno venoso almeno in espirazione.

Da notare che per PEEP si deve intendere la PEEP totale e non la PEEP impostata sul ventilatore meccanico (per la differenza tra le due PEEP vedi post del 10/12/2016). Questo significa che nei pazienti ostruttivi anche la frequenza respiratoria deve essere tenuta bassa (oltre al rapporto I:E). Con la conseguenza dell’ipercapnia, spesso ingiustamente accusata di ogni male, ma che invece può avere numerosi effetti positivi… (vedi post del 03/08/2013). A maggior ragione nei pazienti con shock emorragico, in cui l’incremento della PaCO2 e della ETCO2 possono essere visti come segni positivi di ripristino del circolo.

La PEEP deve però essere gradualmente ripristinata man mano che la pressione arteriosa si stabilizza su valori accettabili. Infatti lo shock emorragico è di per se uno stimolo infiammatorio per il parenchima polmonare (e non solo), ed una ventilazione non protetiva (cioè senza PEEP, peggio se associata ad un elevato volume corrente) amplifica la risposta infiammatoria polmonare e sistemica, con il rischio di facilitare l’insorgenza di ARDS ed insufficienze d’organo (3).

Nel paziente con grave shock emorragico può essere anche utile utilizzare anche una elevata FIO2 nella fase di ipotensione ed anemia. Sappiamo che l’iperossia può essere deleteria, ma per tempi brevi, nella condizione di shock emorragico grave, potrebbe invece essere di aiuto. In uno studio sperimentale è stato infatto dimostrato che la ventilazione con FIO2 1 (rispetto a quella con FIO2 0.21) riduce gli episodi di ipossia tissutale e la mortalità degli animali a 6 ore dall’inizio dello shock (4).

In conclusione, abbiamo buone ragioni per fare una “brutta” ventilazione in caso di grave shock ipovolemico che metta in pericolo la sopravvivenza a breve termine del paziente. In questi casi:

  1. eliminare la PEEP
  2. ridurre la frequenza respiratoria per azzerare l’autoPEEP, cioè consentendo al flusso espiratorio di azzerarsi prima dell’inizio dell’espirazione successiva;
  3. mantenere un volume corrente ragionevole (a buon senso un 7-8 ml/kg di peso ideale, in assenza di particolari danni polmonari)
  4. tollerare l’ipercapnia
  5. utilizzare una elevata FIO2 (anche 1)
  6. appena si ripristina un sufficiente compenso cardiocircolatorio, utilizzare subito la PEEP e ridurre la FIO2 per mantenere la normossiemia (PaO2 tra 60 e 100 mmHg).

E come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Nota: Un piccolo dettaglio fisiologico per i più interessati all’argomento. Questa è la teoria classica del ritorno venoso che attribuisce poca importanza alle resistenze venose. In realtà sembra che la pressione positiva intratoracica agisca prevalentemente aumentando le resistenze venose piuttosto che riducendo la differenza di pressione che guida il ritorno venoso (5-8).

 

Bibliografia.

  1. Krismer AC et al. Influence of positive end-expiratory pressure ventilation on survival during severe hemorrhagic shock. Ann Emerg Med 2005; 46:337-42
  2. Herff H et al. Influence of ventilation strategies on survival in severe controlled hemorrhagic shock. Crit Care Med 2008; 36:2613-20
  3. Bouadma L et al. Mechanical ventilation and hemorrhagic shock-resuscitation interact to increase inflammatory cytokine release in rats. Crit Care Med 2007; 35:2601-6
  4. Meier J et al. Hyperoxic ventilation reduces six-hour mortality after partial fluid resuscitation from hemorrhagic shock. Shock 2004; 22:240-7
  5. Scharf SM et al. Cardiovascular effects of increasing airway pressure in the dog. Am J Physiol 1977; 232:H35-43
  6. Fessler HE et al. Effects of positive end-expiratory pressure on the gradient for venous return. Am Rev Respir Dis 1991; 143:19-24
  7. Nanas S et al. Adaptations of the peripheral circulation to PEEP. Am Rev Respir Dis 1992; 146:688-93
  8. Jellinek H et al. Influence of positive airway pressure on the pressure gradient for venous return in humans. J Appl Physiol
    2000; 88:926-32

Trauma cranico e ARDS: l’ipercapnia è solo un problema o può diventare la soluzione?

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Spesso devo rispondere alla domanda: “Se un paziente con trauma cranico sviluppa una ARDS*, è meglio tenere bassa la pressione intracranica aumentando il volume corrente o è comunque prioritario mantenere la ventilazione protettiva a basso volume corrente anche se questa dovesse aumentare la pressione intracranica?”

Il dilemma nasce dalla possibilità che un’eventuale ipercapnia indotta della ventilazione a basso volume corrente, possa indurre un aumento del flusso ematico cerebrale e di conseguenza della pressione intracranica, una variabile fisiologica che invece nel trauma cranico si dovrebbe limitare.

Cerchiamo di capire perché la risposta a questa domanda è tutt’altro che ovvia, e tentiamo alla fine di proporre una strategia ragionevole.

Rispondiamo separatamente alle diverse parti della domanda iniziale

“Se un paziente con trauma cranico sviluppa una ARDS,…”

Circa il 30% nei pazienti con trauma cranico grave ed emorragia subaracnoidea da rottura di aneurisma cerebrale sviluppa una ARDS (1, 2). Questa elevata incidenza ha un proprio fondamento biologico che riassunto nella teoria del brain-lung crosstalk (comunicazione encefalo-polmone) (3, 4).
In breve, una lesione cerebrale acuta innesca un ipertono adrenergico ed una cascata infiammatoria che predispongono il parenchima polmonare a subire i danni da ventilazione meccanica più facilmente di quanto non accadrebbe al polmone di un soggetto senza lesione cerebrale.
Se si riesce ad innescare una ARDS, i polmoni poi si ”vendicano” sul cervello, liberando a loro volta immunomediatori che possono amplificare il danno cerebrale secondario, andando a bersaglio anche sull’encefalo. Un circolo vizioso in cui encefalo e polmoni si fanno reciprocamente del male.
Ne consegue che nelle persone con trauma cranico, l’impostazione di una ventilazione protettiva, anche in assenza di ARDS, è più importante rispetto ad altri pazienti perchè hanno polmoni che perdonano di meno una ventilazione scorretta.

“…è meglio tenere bassa la pressione intracranica aumentando il volume corrente…”

Le linee-guida sul trauma cranico grave della Brain Trauma Foundation ci danno la risposta a questa parte di domanda: non si deve iperventilare (se non, eventualmente, per far fronte temporaneamente alle condizioni in cui si palesino i segni clinici di una erniazione cerebrale). L’unica raccomandazione sulla ventilazione meccanica delle linee-guida è quella di evitare l’ipocapnia prolungata profilattica (“Prolonged prophylactic hyperventilation with PaCO2 of ≤25 mm Hg is not recommended” – Class IIb) (5), obiettivo chiaramente in sintonia con la ventilazione protettiva, che mai si sognerebbe di iperventilare.
Sappiamo che i pazienti con trauma cranico hanno un incremento del volume delle aree ipoperfuse rispetto ai soggetti normali (6). Ed abbiamo la dimostrazione di cosa accade quando in questi pazienti si riduce la PaCO2: riduzione del flusso ematico cerebrale (nonostante l’aumento della pressione di perfusione cerebrale), aumento del volume delle aree di ipoperfusione, riduzione della PO2 tissutale cerebrale e della saturazione venosa giugulare (in alcuni casi al di sotto dei livelli di sicurezza), incremento di mediatori del danno cerebrale secondario (6–8).
Nella versione estesa delle linee guida si afferma che l’obiettivo della ventilazione nei pazienti con trauma cranico grave è la normocapnia, definita come una PaCO2 tra 35 e 45 mm Hg (in assenza di erniazione cerebrale). Nei pazienti con ARDS la ventilazione a basso volume corrente determina mediamente una PaCO2 inferiore a 45 mmHg (9). Ne consegue che molto spesso si riesce a mantenere una buona ventilazione protettiva anche nel traumatizzato cranico con ARDS senza doversi porre alcun problema.

Ma fino a che livello di pressione intracranica possiamo mantenere la ventilazione protettiva con basso volume corrente? Sempre le linee-guida raccomandano il trattamento della pressione intracranica solo quando è superiore a 22 mmHg (5). Nei pazienti con ARDS e trauma cranico grave quindi dovremmo tranquillamente attenerci alla buona pratica della ventilazione protettiva fino ai 22 mmHg di pressione intracranica.

…o è comunque prioritario mantenere la ventilazione protettiva a basso volume corrente anche se questa dovesse aumentare la pressione intracranica?

In altre parole, quando la pressione intracranica aumenta stabilmente in un paziente con ARDS e trauma cranico, dobbiamo rassegnarci ad aumentare il volume corrente per ridurre la PaCO2, il flusso ematico cerebrale e la pressione intracranica? (dò per scontato che la frequenza respiratoria sia già stata aumentata, se necessario, a 25-35/minuto).

Per prima cosa ci dobbiamo chiedere se la soglia di 22 mmHg debba essere considerata insuperabile. La raccomandazione sul valore soglia di 22 mmHg è classificata nella linea-guida con basso livello di evidenza (IIb, “based on a low-quality body of evidence”) poiché si fonda unicamente su un’analisi retrospettiva di un database (10). Consideriamo preliminarmente che in questa analisi i 22 mmHg si riferiscono al valore medio di pressione intracranica registrato durante il monitoraggio (e non al valore massimo raggiunto). Inoltre si evince dalla lettura dell’articolo che sopravvive il 37 % dei pazienti con valori superiori a 22 mmHg di pressione intracranica media; e che il 52% dei pazienti con pressione intracranica mediamente inferiore ai 22 Hg ha un esito neurologico sfavorevole (10). Insomma, ci possiamo fare l’idea che 22 mmHg non siano la soglia magica della pressione intracranica…
Da queste considerazioni possiamo capire come la pressione intracranica rappresenti una utile guida al trattamento del paziente con trauma cranico, ma che non debba essere vista come un dogma con valori soglia da rispettare ad ogni costo. Anche la pressione intracranica, come tutti i dati clinici, deve essere sempre contestualizzata. Un conto è una pressione intracranica che aumenta per un ematoma intracranico, per un’ischemia cerebrale, per un idrocefalo; forse un altro peso bisogna dare ad un aumento della pressione intracranica secondario ad un aumento del flusso ematico cerebrale. Che potrebbe anche avere degli aspetti positivi… Alcuni eleganti studi su animali evidenziano, in modelli di ischemia cerebrale, che l’ipercapnia riduce l’estensione e la gravità del danno ischemico ed i deficit neurologici rispetto alla normocapnia, nonostante l’incremento della pressione intracranica (11, 12).

Effetto dell'ipercapnia persistente sul pH liquorale (ref. 15)

Figura 1. Effetto dell’ipercapnia persistente sul pH liquorale (ref. 15)

Peraltro le variazioni stabili di PaCO2 si associano al graduale riavvicinamento della pressione intracranica verso i valori basali nelle ore successive (12, 13). Questo è giustificato dal fatto che non è la PaCO2 che direttamente modifica il flusso ematico cerebrale ma le variazioni che essa induce sul pH liquorale (14). In breve tempo (ore) il pH liquorare tende a ripristinarsi con valori di PaCO2 stabilmente aumentati (15) (figura 1). Possiamo quindi ragionevolmente prevedere che gli effetti dell’ipercapnia sulla pressione intracranica possano essere modesti e comunque con la tendenza a limitarsi nel tempo, quando essa si sviluppa lentamente. E quando la pressione intracranica tende ad aumentare parallelamente all’incremento di PaCO2, possiamo comunque utilizzare nel frattempo le strategie terapeutiche normalmente adottate per ridurre la pressione intracranica (sedazione, drenaggio liquorale, fluidi ipertonici o iperosmotici).
Infine dobbiamo considerare che la ventilazione con alto volume corrente, oltre ad aumentare di per sè la mortalità quando vi è una ARDS (9), peggiora ossigenazione e metabolismo cerebrali ed aumenta l’attivazione delle cellule cerebrali rispetto all’utilizzo di un volume corrente protettivo (16, 17), anche a parità di PaCO2 (16) (ricordiamo il brain-lung crosstalk).

Possiamo ora concludere dando una risposta motivata alla domanda iniziale:

  • nei pazienti con trauma cranico ci deve essere lo scrupoloso rispetto della ventilazione protettiva per prevenire l’ARDS, condizione a cui sono particolarmente predisposti;
  • se si sviluppa l’ARDS in un soggetto con trauma cranico grave, la ventilazione protettiva va mantenuta senza esitazioni se la pressione intracranica resta entro limiti tollerabili (ragionevolmente entro i 20-25 mmHg). Questo anche se vi dovesse essere ipercapnia. La ventilazione protettiva dovrebbe essere gestita impostando volume corrente e PEEP per minimizzare la driving pressure e, se possibile, contenerla entro i 15 cmH2O;
  • se la pressione intracranica supera i 20-25 mmHg, si devono mettere in pratica tutti gli interventi terapeutici normalmente utilizzati per trattare l’ipertensione intracranica (sedazione/paralisi, drenaggio liquorale, mannitolo o soluzione salina ipertonica, chirurgia per rimuovere eventuali lesioni che espansive);
  • se la pressione intracranica supera stabilmente i 25-30 mmHg, nonostante la terapia medica e chirurgica, l’utilizzo di un volume corrente non protettivi deve essere preso in considerazione con una valutazione integrata dello stato neurologico, delle lesioni presenti alla TC encefalo, di monitoraggi neurologici aggiuntivi (ad esempio la saturazione venosa giugulare o altre metodiche più complesse per i centri che le utilizzano con esperienza), del livello di ipossiemia, dell’assetto cardiocircolatorio, …. Qualora non vi siano controindicazioni alla anticoagulazione (però spesso presenti), in questi casi si può anche valutare la rimozione extracorporea di CO2 o L’ECMO.

L’ipercapnia può essere accettata nel trauma cranico se non scompensa la pressione intracranica ed è la conseguenza inevitabile di una buona ventilazione protettiva. In questo caso l’ipercapnia può essere più una soluzione che un problema…

Un sorriso ed un caro augurio di buon Anno Nuovo a tutti gli amici di ventilab.

* Acute Respiratory Distress Syndrome

Bibliografia.
1. Holland MC, Mackersie RC, Morabito D, et al.: The Development of Acute Lung Injury Is Associated with Worse Neurologic Outcome in Patients with Severe Traumatic Brain Injury: J Trauma Inj Infect Crit Care 2003; 55:106–111
2. Kahn JM, Caldwell EC, Deem S, et al.: Acute lung injury in patients with subarachnoid hemorrhage: Incidence, risk factors, and outcome: Crit Care Med 2006; 34:196–202
3. Mascia L: Acute Lung Injury in Patients with Severe Brain Injury: A Double Hit Model. Neurocrit Care 2009; 11:417–426
4. Mrozek S, Constantin J-M, Geeraerts T: Brain-lung crosstalk: Implications for neurocritical care patients. World J Crit Care Med 2015; 4:163
5. Carney N, Totten AM, OʼReilly C, et al.: Guidelines for the Management of Severe Traumatic Brain Injury, Fourth Edition: Neurosurgery 2017; 80:6–15
6. Coles JP, Minhas PS, Fryer TD, et al.: Effect of hyperventilation on cerebral blood flow in traumatic head injury: Clinical relevance and monitoring correlates. Crit Care Med 2002; 30:1950–1959
7. Imberti R, Bellinzona G, Langer M: Cerebral tissue PO2 and SjvO2 changes during moderate hyperventilation in patients with severe traumatic brain injury. J Neurosurg 2002; 97–102
8. Marion DW, Puccio A, Wisniewski SR, et al.: Effect of hyperventilation on extracellular concentrations of glutamate, lactate, pyruvate, and local cerebral blood flow in patients with severe traumatic brain injury*: Crit Care Med 2002; 30:2619–2625
9. Acute Respiratory Distress Syndrome Network: Ventilation with Lower Tidal Volumes as Compared with Traditional Tidal Volumes for Acute Lung Injury and the Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2000; 342:1301–1308
10. Sorrentino E, Diedler J, Kasprowicz M, et al.: Critical Thresholds for Cerebrovascular Reactivity After Traumatic Brain Injury. Neurocrit Care 2012; 16:258–266
11. Simon P: Brain Acidosis Induced by Hypercarbic Ventilation Attenuates Focal lschemic Injury. J Pharmacol Exp Ther 1993; 267:1428–1431
12. Zhou Q, Cao B, Niu L, et al.: Effects of Permissive Hypercapnia on Transient Global Cerebral Ischemia–Reperfusion Injury in Rats: Anesthesiology 2010; 112:288–297
13. Raichle ME, Posner JB, Plum F: Cerebral Blood Flow During. Arch Neurol 1970; 23:394–403
14. Ainslie PN, Duffin J: Integration of cerebrovascular CO2 reactivity and chemoreflex control of breathing: mechanisms of regulation, measurement, and interpretation. Am J Physiol-Regul Integr Comp Physiol 2009; 296:R1473–R1495
15. Messeter K, Siesjö BK: Regulation of the CSF pH in Acute and Sustained Respiratory Acidosis. Acta Physiol Scand 1971; 83:21–30
16. Bickenbach J, Zoremba N, Fries M, et al.: Low Tidal Volume Ventilation in a Porcine Model of Acute Lung Injury Improves Cerebral Tissue Oxygenation: Anesth Analg 2009; 109:847–855
17. Quilez M, Fuster G, Villar J, et al.: Injurious mechanical ventilation affects neuronal activation in ventilated rats. Crit Care 2011; 15:R124

 


Volume corrente elevato durante Pressure Support Ventilation: che fare?

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Un paziente (non sedato) con pressione di supporto di 17 cmH2O (e 4 cmH2O di PEEP) ha un volume corrente di circa 720 ml. Puoi vedere a fianco la traccia di pressione (in alto) e flusso (in basso) di un atto respiratorio. Il peso ideale del paziente è  66 kg.

Certamente avrai notato che il volume corrente è 11 ml/kg di peso ideale. Un valore che usualmente riteniamo opportuno evitare, preferendo limitarlo a circa 8 ml/kg di peso ideale,  che in questo paziente corrisponderebbe a 530 ml. Come possiamo ridurre questo volume corrente durante ventilazione in pressione di supporto?

Molti pensano che la soluzione sia quella di ridurre la pressione di supporto, ma purtroppo questa convinzione (largamente diffusa) spesso non è corretta. Vediamo infatti cosa succede al variare del livello di pressione di supporto.

In questo paziente facciamo una occlusione delle vie aeree a fine inspirazione (figura 1):

Figura 1

Vediamo che la pressione di plateau è 25 cmH2O (valore mostrato in alto a destra, misurato dove è collocata la linea verticale bianca, cioè sulla parte di pressione costante dopo l’occlusione). Ricordiamo che la pressione di plateau è la somma di pressione elastica (la pressione generata dal volume corrente) e PEEP totale (vedi post del 24/06/2011).

In questo caso la pressione erogata dal ventilatore meccanico è 21 cmH2O, cioè la somma di 17 cmH2O di pressione di supporto e 4 cmH2O di PEEP. Una pressione di plateau più elevata della pressione erogata dal ventilatore è segno di attività dei muscoli inspiratori (vedi post del 08/05/2016). Se il paziente attiva i propri muscoli inspiratori, probabilmente il supporto inspiratorio applicato è insufficiente per soddisfare completamente la richiesta di ventilazione dei suoi centri respiratori.

La figura 2 mostra cosa accade quando si riduce il supporto inspiratorio a 13 cmH2O (4 cmH2O in meno del basale), mentre la figura 3 quando lo si aumenta a 21 cmH2O (4 cmH2O in più rispetto al basale).

Figura 2

Figura 3

Nonostante la cospicua variazione di pressione di supporto (il 25% in più o in meno del basale), la variazione associata di volume corrente è insignificante. Non variando significativamente il volume corrente e la PEEP totale, è prevedibile che la pressione di plateau rimanga costante a 25 cmH2O.

Quello che cambia è la pressione generata dai muscoli inspiratori (cioè la differenza tra pressione di plateau e pressione applicata dal ventilatore), che aumenta al ridursi del supporto inspiratorio: 0 cmH2O con pressione di supporto 25 cmH2O (figura 3), 4 cmH2O con pressione di supporto 17 cmH2O (figura 1) e 8 cmH2O con pressione di supporto 13 cmH2O (figura 2).*

La traduzione clinica di queste misurazioni è: riducendo la pressione di supporto abbiamo fatto faticare di più il paziente senza ridurre il volume corrente. Il suo “cervello” vuole questo livello di ventilazione, indipendentemente dal livello di supporto inspiratorio. Questa dinamica è però vera fino a un certo punto, fino a quando il paziente riesce a permetterselo…

Vediamo infatti cosa succede se riduciamo il supporto di pressione di altri 4 cmH2O rispetto alla figura 2, portandolo cioè a 9 cmH2O.

Figura 4

Finalmente il volume corrente (circa 580 ml) si riduce in maniera significativa! Questo però non significa che stiamo facendo un favore al nostro paziente…. La stima della pressione generata dai muscoli inspiratori è 7 cmH2O (pressione di plateau 20 cmH2O – 13 cmH2O applicati dal ventilatore), un valore simile agli 8 cmH2O calcolati nella figura 2 con supporto inspiratorio 13 cmH2O.

La traduzione clinica di questa osservazione è: i muscoli inspiratori probabilmente non riescono a generare più di 7-8 cmH2O di pressione ad ogni inspirazione. Ne consegue che, arrivati a questo punto, ogni ulteriore riduzione del supporto ventilatorio si traduce in una riduzione del volume corrente: probabilmente stiamo mantenendo il paziente al massimo sforzo di cui è capace durante l’inspirazione, con il conseguente rischio di fatica dei muscoli inspiratori.

Nella figura 5 vediamo invece un cospicuo aumento di volume corrente (circa 950 ml) quando si aumenta la pressione di supporto di 4 cmH2O rispetto ad una condizione di passività, come quella descritta in figura 3:

Figura 5

La traduzione clinica è: quando i muscoli inspiratori sono già passivi (come con pressione di supporto 21 cmH2O), ogni ulteriore aumento di pressione applicata si traduce in un incremento di volume corrente (come nelle ventilazioni controllate).

Una regola importante (e spessissimo trascurata) è che la pressione di supporto si dovrebbe regolare valutando anche (e soprattutto) lo sforzo inspiratorio del paziente e non solo (e non tanto) il valore del volume corrente/kg di peso ideale.

Torniamo al quesito iniziale: quando ci troviamo un paziente come in figura 1, che fare per ridurre un volume corrente eccessivo? Pensiamo solo ad una strategia ventilatoria che non contempli l’utilizzo di sedazione e paralisi (scelta raccomandabile solo in casi particolari).

La via di uscita  può essere nell’impostare una ventilazione controllata con un volume corrente accettabile, ad esempio 8 ml/kg di peso ideale. Nel caso del nostro paziente circa 530 ml. Ovviamente la frequenza respiratoria deve essere sufficientemente elevata da iperventilare (almeno inizialmente) il paziente, superando le sue necessità di ventilazione al fine di renderlo passivo.

In questo caso abbiamo iniziato una ventilazione pressometrica a target di volume  con 530 ml di volume corrente e 32 di frequenza respiratoria. Nel giro di 5 minuti il paziente diventa passivo alla ventilazione (dopo essersi un pochino “ribellato” per i primi minuti). A questo punto riduciamo la frequenza impostata fino ad avere la comparsa solo occasionale di atti respiratori triggerati. Ecco il risultato finale.

Figura 6

Il paziente è stato “catturato” da un volume corrente appropriato. Nelle modalità assistite-controllate ricordo che è fondamentale il controllo della duranta del tempo inspiratorio che deve essere normalmente tra 0.8″-1″ (da adeguare osservando il monitoraggio, come insistiamo nei corsi di Ventilazione Meccanica) (vedi anche post del 15/03/2014).

Valutiamo anche il risultato di questa ventilazione anche alla luce delle occlusioni a fine inspirazione e fine espirazione:

Figura 7

La pressione di plateau è 23 cmH2O con una PEEP totale di 10 cmH2O, ed una driving pressure di 13 cmH2O: i valori di pressione e volume, valutati congiuntamente, sono ampiamente accettabili.

Potremo poi ridare un maggior controllo della ventilazione (ed una maggior attività) al paziente riducendo ulteriormente la frequenza respiratoria impostata dopo un ragionevole periodo di riposo.

Non sempre l’approccio descritto in questo post è efficace, ma, quando lo è (e cioè spesso), risolve rapidamente situazioni imbarazzanti.

Ricordo infine che un po’ di autoPEEP in un paziente passivo è, il più delle volte, un evento assolutamente benigno, che non richiede alcuna contromisura.

Come ultima cosa, ti lascio un piccolo calcolo da fare da solo: come è variata la compliance dalla ventilazione iniziale (figura 1) a quella finale (figura 7)? Da questo punto di vista quale ventilazione preferisci?

Terminiamo il post, come sempre, riepilogando i punti essenziali:

  • la ventilazione con pressione di supporto può portare ad un volume corrente pericolosamente elevato;
  • spesso la riduzione della pressione di supporto non è una scelta saggia: affatica il paziente, spesso senza ridurre il volume corrente;
  • per ridurre il volume corrente in un ambito di normalità si può impostare una ventilazione a target di volume con elevata frequenza respiratoria;
  • dopo un breve periodo (5′-10′) ad elevata frequenza respiratoria, questa può essere progressivamente ridotta fino alla occasionale comparsa di atti respiratori triggerati;
  • è sempre determinante mantenere un tempo inspiratorio (e non il rapporto I:E) ragionevole, spesso compreso tra 0.8″-1″.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

* La pressione resistiva (vedi post del 5/12/2011) non è considerata in queste stime.

PS: segnalo che il 22 febbraio 2019 si terrà il convegno “EMERGENZE IN SALA PARTO – APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE” presso Fondazione Poliambulanza a Brescia (clicca qui per scaricare la locandina). Ci sarò anche io 🙂

 

Pressione esofagea ed ARDS: news (?)

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Qualche giorno fa un amico, dopo aver letto un recentissimo articolo pubblicato su JAMA (1), mi ha chiamato un po’ confuso chiedendomi: “Ma dopo questo articolo, ha ancora senso misurare la pressione esofagea nella ARDS?”

Cerchiamo di trovare insieme la risposta a questa domanda.

Nel 2008 è stato pubblicato un trial clinico che mostrava la superiorità della ventilazione protettiva guidata dalla pressione esofagea rispetto all’utilizzo delle tabelline PEEP-FIO2 della ARDS network (2). Il gruppo che fece questo studio ha coordinato il trial clinico randomizzato, controllato, multicentrico, condotto dal 2012 al 2017, che oggi cercheremo di capire e commentare.

L’articolo si propone di valutare l’utilità della pressione esofagea nella selezione della PEEP nella ARDS rispetto alle tabelle PEEP-FIO2 (il titolo infatti è: “Effect of Titrating Positive End-Expiratory Pressure (PEEP) With an Esophageal Pressure-Guided Strategy vs an Empirical High PEEP-FIO2 Strategy…“).

Le conclusioni dell’abstract non lasciano dubbi: i dati dello studio non supportano l’utilizzo della pressione esofagea nella scelta della PEEP nella ARDS (“…Pes-guided PEEP, compared with empirical high PEEP-FIO2, resulted in no significant difference in death and days free from mechanical ventilation. These findings do not support Pes-guided PEEP titration in ARDS.“).

Spesso non sono d’accordo con le conclusioni degli abstract. Ed anche questa volta ritengo vi siano molti elementi su cui riflettere e che dovrebbero farci riformulare queste conclusioni. Alla fine del post vedremo quali dovrebbero essere le conclusioni appropriate da trarre dai risultati di questo studio.

Nel trial in esame i pazienti sono stati randomizzati per scegliere la PEEP con la tabella PEEP-FIO2 (a questo riguardo, vedi post del 06/10/2016) o valutando la pressione esofagea. Vediamo cosa significa.

Come è stata scelta la PEEP senza la pressione esofagea (Empirical High PEEP-FIO2 Strategy).

Figura 1

E’ stata impostata una PEEP per ottenere una PaO2 tra 55 e 80 mmHg o una SpO2 tra 88 e 93%: si aumenta la PEEP se l’ossigenazione è inferiore a questi obiettivi, mentra la si riduce se è superiore. Ogni PEEP ha una FIO2 associata da utilizzare, come indicato nella figura 1. Il criterio di scelta della PEEP in questo gruppo di pazienti è guidato dall’ossigenazione e non dalla pressione esofagea.

Chi segue ventilab sa bene che non suggerisco di scegliere la PEEP guardando la PaO2 (come si fa con questo approccio), ma piuttosto di sceglierla per aumentare la compliance e quindi ridurre la driving pressure (vedi post del 28/02/2015). Non ritengo siano molto importanti le variazioni di PaO2 quando si imposta il ventilatore nei pazienti con ARDS perchè spesso ciò che migliora l’ossigenazione può in realtà aumentare la mortalità. Ad esempio utilizzare un volume corrente di 12 ml/kg di peso ideale, rispetto a 6 ml/kg, o utilizzare reclutamento ed alta PEEP migliorano l’ossigenazione nei primi giorni di ventilazione ma, ahimè, aumentano la mortalità (3,4). Mi sembrano argomentazioni più che sufficienti per non farsi abbagliare da un aumento della PaO2 o del rapporto PaO2/FIO2 quando si “smanetta” con il ventilatore meccanico. Personalmente preferisco mantenere una ventilazione protettiva anche a costo di ridurre il rapporto PaO2/FIO2.

Una riflessione sugli obiettivi di ossigenazione dello studio che stiamo analizzando (PaO2 55-80 mmHg, SpO2 88-93%): essi sono probabilmente inferiori ai valori di PaO2 che molti medici inseguono nei pazienti con ARDS. Nella mia pratica clinica sono in sintonia con questi target ossigenativi: quando la PaO2 è tra 60 e 90 mmHg sono più che soddisfatto, e livelli superiori di PaO2 mi inducono a ridurre la FIO2.

 

Come è stata scelta la PEEP con la pressione esofagea (Esophageal Pressure-Guided Strategy).

Figura 2

E’ stata impostata una PEEP per ottenere una PaO2 tra 55 e 80 mmHg o una SpO2 tra 88 e 93%. Ti sembra uguale a quanto descritto per l’altro gruppo? Non è un errore, in fondo è proprio così… Cerchiamo di capire il perchè.

Nel gruppo con la pressione esofagea è stata utilizzata una tabella PL-FIO2 (figura 2), che differisce da quella in figura 1 perchè sostituisce la PEEP con la pressione transpolmonare di fine espirazione (PL). La pressione transpolmonare di fine espirazione si calcola come differenza tra PEEP totale e pressione esofagea di fine espirazione (vedi post del 07/02/2012). PL è la pressione che distende i polmoni a fine espirazione, cioè la “PEEP dei polmoni” (esclude la pressione generata dalla gabbia toracica).

Come si fa ad aumentare PL? Si aumenta la PEEP. Come si fa a ridurre PL? Si riduce la PEEP.

Per questo ho iniziato il capitolo scrivendo che anche in questi pazienti “E’ stata impostata una PEEP per ottenere una PaO2 tra 55 e 80 mmHg o una SpO2 tra 88 e 93%“.

In sostanza, l’unica differenza, rispetto al gruppo senza pressione esofagea, è che la PEEP, oltre a raggiungere l’obiettivo ossigenativo (PaO2 55-80 mmHg), deve anche portare ad una pressione transpolmonare di fine espirazione tra 0 e 6 cmH2O, tanto più elevata quanto più grave è l’ipossiemia (figura 2). E per ogni valore di PL si deve utilizzare la FIO2 indicata nella tabella a fianco.

A me sembra una strategia molto simile quella tra i due gruppi: in entrambi i casi la PEEP ha un obiettivo ossigenativo. La pressione esofagea avrebbe potuto essere usata senza alcuna finalità ossigenativa: in tal caso sarebbe stato sufficiente regolare la PEEP per ottenere una PL≅0 cmH2O, indipendentementente dal livello di ipossiemia. Questo avrebbe realmente reso diverse le due filosofie di trattamento, ma così non è stato.

PEEP e pressione di plateau con e senza pressione esofagea.

Durante la prima settimana i valori di PEEP impostati erano uguali nei due gruppi (figura 3, in giallo il gruppo con la PEEP guidata dalla pressione esofagea): le due strategie (presuntamente diverse) hanno portato alla fine all’applicazione dello stesso livello di PEEP

Figura 3

Il grafico è complesso, ma una informazione che possiamo ricavare è che in prima giornata il 25% dei pazienti (in entrambi i gruppi) aveva una PEEP > 20 cmH2O, una condizione che è molto diversa da quella riscontro nella pratica clinica, in cui è veramente raro utilizzare PEEP di 20 cmH2O o superiori. Non voglio certamente proporre le mie strategie di cura come uno standard di riferimento, semplicemente noto che è uno scenario molto diverso da quello che vedo nei miei pazienti: ne consegue che i risultati di questo studio hanno una bassa validità esterna (problema tipico dei trial randomizzati e controllati) e quindi hanno una scarsa ricaduta nella pratica clinica (5).

Un altro dato interessante riguarda le pressioni di plateau, che possiamo osservare nella figura 4.

Figura 4

Anche per questa variabile non ci sono differenze tra i due approcci terapeutici. Questa figura ci dice che in prima giornata il 50% dei pazienti aveva pressioni di plateau > di 30 cmH2O (vediamo un paziente con oltre 55 cmH2O). Ho imparato dalla letteratura e dalla mia pratica quotidiana che la maggior parte dei pazienti con ARDS mostra segni di sovradistensione già sopra i 25 cmH2O. Non entro nel merito del significato della pressione di plateau (se qualcuno fosse interessato ne possiamo discutere nei commenti), rilevo semplicemente che anche questo è un dato decisamente diverso da quanto si osserva nella pratica clinica e ribadisce la bassa validità esterna dello studio che stiamo commentando.

I risultati.

Le due strategie di scelta della PEEP non hanno evidenziato differenze di mortalità (31-32%) o di giorni liberi da ventilazione meccanica a 28 giorni.

Il dato non sorprende quando si constata che sono stati applicati gli stessi livelli di PEEP e pressione di plateau nei due gruppi.

Come mai, nello studio del 2008, il gruppo guidato dalla pressione esofagea aveva mostrato una chiara tendenza alla riduzione della mortalità rispetto all’uso della tabella PEEP-FIO2 (2)? Una spiegazione semplice è che le tabelle PEEP-FIO2 e PL-FIO2 utilizzate nello studio del 2008 erano diverse da quelle mostrate nelle figure 1 e 2. In particolare i valori di PEEP nella tabella 1 sono più elevati di quelli utilizzati nello studio precedente, mentre quelli di PL della tabella 2 sono stati ridotti.

Figura 5

Le tabelle PEEP-FIO2 e PL-FIO2  utilizzate nel 2008 determinavano differenze di PEEP e pressione di plateau tra i gruppi (figura 5): sono state applicate pressioni diverse nei due gruppi di pazienti ed ottenuti risultati diversi.  Le tabelle PEEP-FIO2 e PL-FIO2 utilizzate nello studio del 2019 hanno invece portato apressioni e risultati simili nelle due strategie. Tutto quadra.

Ricordo che tutte le tabelle PEEP-FIO2 e PL-FIO2 sono inventate, arbitrarie,  senza alcuna evidenza clinica o fisiopatologica a loro supporto. Se domani ci volessimo fare la nostra tabella, basterebbe che ci sedessimo al bar, e con una discussione da bar, ne scrivessimo una… E, come abbiamo visto, se si cambia tabella, cambiano i risultati.

Conclusioni.

Ecco perchè non sono d’accordo con le conclusioni dell’abstract (“These findings do not support Pes-guided PEEP titration in ARDS.“): questo studio ha esaminato solo una delle infinite possibili coppie di tabelle PEEP-FIO2 e PL-FIO2. Le vere conclusioni si dovrebbero limitare a queste tabelle: “Questi dati non supportano l’utilizzo di questa tabella PL-FIO2 rispetto a questa tabella PEEP-FIO2“.

Ma ancor più importante è la considerazione che si può fare un utilizzo completamente diverso della pressione esogafea nella ARDS rispetto a quello descritto nell’articolo di JAMA.

La pressione tranpolmonare di fine espirazione è una misura di meccanica respiratoria e può essere inserita in un percorso di scelta della PEEP basato sulla meccanica respiratoria (e non sull’ossigenazione). Non intendo proporre un utilizzo sicuramente efficace della pressione transpolmonare, ma solo descrivere un possibile approccio al suo utilizzo come guida nella ventilazione meccanica, INDIPENDENTEMENTE dalle variazioni acute di PaO2.

Si può fare un PEEP trial (rivedi post del 28/02/2015), e scegliere il livello di PEEP che la minimizza driving pressure transpolmonare (invece di quella che normalmente calcoliamo sulla pressione delle vie aeree). La driving pressure transpolmonare si calcola come la differenza tra pressione tranpolmonare di fine inspirazione (pressione di plateaupressione esofagea durante la pausa di fine inspirazione) e pressione transpolmonare di fine espirazione (vedi sopra).

Se, come spesso capita, PEEP differenti portano ad avere la stessa driving pressure transpolmonare (cmH2O più, cmH2O meno), si può scegliere tra queste PEEP quella che garantisce una pressione transpolmonare di fine espirazione ≅ 0 cmH2O.

Si può ridurre il volume corrente se la pressione tranpolmonare di fine inspirazione (vedi sopra) diventa eccessiva. Senza alcuna evidenza, gli studi propongono un valore massimo di 20-25 cmH2O (1,2), ma nella mia esperienza con valori sopra i 15 cmH2O si osservano spesso segni di sovradistensione, per cui preferisco limitare il volume corrente se ci si avvicina a questo limite.

Sarebbe interessante confrontare i risultati di una ventilazione fatta con questi criteri con una invece in cui si scelgono i paramentri ventilatori con un obiettivo ossigenativo… Ma gli studi che abbiamo a disposizione sulla pressione esofagea non ci dicono nulla in merito.

La pressione esofagea nella ARDS ha certamente bisogno di ulteriori studi per capire se, come e quando utilizzarla. Non ritengo che il trial clinico controllato randomizzato multicentrico che abbiamo commentato abbia dato un gran contributo alle nostro conoscenze, se non per dire che le due tabelline a confronto producono risultati simili.

Invito a non avere certezze su questo argomento ed a basarsi, per ora, su presupposti fisiopatologici in attesa di eventuali verifiche in trial clinici che ci possano essere realmente di aiuto nella nostra pratica clinica.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.
1) Beitler JR, Sarge T, Banner-Goodspeed VM, et al. Effect of Titrating Positive End-Expiratory Pressure (PEEP) With an Esophageal Pressure–Guided Strategy vs an Empirical High PEEP-FIO2 Strategy on Death and Days Free From Mechanical Ventilation Among Patients With Acute Respiratory Distress Syndrome: A Randomized Clinical Trial. JAMA. February 2019. doi:10.1001/jama.2019.0555
2) Talmor D, Sarge T, Malhotra A, et al. Mechanical Ventilation Guided by Esophageal Pressure in Acute Lung Injury. New England Journal of Medicine. 2008;359(20):2095-2104. doi:10.1056/NEJMoa0708638
3) Acute Respiratory Distress Syndrome Network. Ventilation with Lower Tidal Volumes as Compared with Traditional Tidal Volumes for Acute Lung Injury and the Acute Respiratory Distress Syndrome. The New England Journal of Medicine. 2000;342(18):1301-1308. doi:10.1056/NEJM200005043421801
4) Writing Group for the Alveolar Recruitment for Acute Respiratory Distress Syndrome Trial (ART) Investigators, Cavalcanti AB, Suzumura ÉA, et al. Effect of Lung Recruitment and Titrated Positive End-Expiratory Pressure (PEEP) vs Low PEEP on Mortality in Patients With Acute Respiratory Distress Syndrome: A Randomized Clinical Trial. JAMA. 2017;318(14):1335. doi:10.1001/jama.2017.14171
5) Rothwell PM. External validity of randomised controlled trials: “To whom do the results of this trial apply?” The Lancet. 2005;365(9453):82-93. doi:10.1016/S0140-6736(04)17670-8

Sforzo inefficace, doppio trigger, ciclaggio anticipato: capire le asincronie per scegliere il trattamento corretto.

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Lo sforzo inefficace è determinato da un’attivazione dei muscoli inspiratori che non è sufficiente ad attivare il trigger inspiratorio (vedi anche il post del 08/05/2012 e quello del 24/09/2017).

Vi è consenso nel ritenere che i criteri diagnostici dello sforzo inefficace sulle curve di pressione e flusso sia la contemporanea presenza di due segni: 1) riduzione della pressione delle vie aeree (figura 1, traccia in alto); 2) riduzione del flusso espiratorio (che si avvicina alla linea dello zero) (figura 1, traccia in basso), a cui non segue un’inspirazione assistita (1,2).

Figura 1

Una piccola precisazione, prima di affrontare il caso di oggi. A mio parere questi criteri diagnostici “ufficiali” sarebbero da rivedere: il primo dei due criteri (la riduzione di pressione delle vie aeree) non è infatti indispensabile per identificare uno sforzo inefficace. L’unico segno necessario è la riduzione del flusso espiratorio, in assenza di un concomitante aumento della pressione delle vie aeree.

Figura 2

Vediamo ad esempio la figura 2: c’è sicuramente uno sforzo inefficace, come dimostrato dalla depolarizzazione del diaframma in fase espiratoria (traccia in basso), a cui non segue l’attivazione del trigger inspiratorio. Durante la contrazione diaframmatica (tra le due righe azzurre tratteggiate verticali), il flusso (traccia verde) si riduce durante l’espirazione (rispetto al decadimento esponenziale passivo che potremmo ipotizzare, curva bianca tratteggiata), fino a toccare la linea dello zero. La pressione delle vie aeree non si riduce, rimanendo stabile sul valore della PEEP (linea orizzontale tratteggiata bianca, traccia in alto). Questo esempio dimostra che uno sforzo inefficace può verificarsi anche  quando la pressione delle vie aeree rimane costante.

Nel mondo ideale, con ventilatori meccanici “perfetti”, la pressione delle vie aeree non dovrebbe ridursi mai durante uno sforzo inefficace. Infatti il compito del ventilatore meccanico durante l’espirazione dovrebbe essere quello di mantenere il livello di PEEP, indipendentemente dall’attività del paziente. Però viviamo in un mondo reale, con ventilari meccanici “imperfetti”, che riescono a mantenere la PEEP stabile solo se l’attività dei muscoli respiratori è di modesta entità. Per questo motivo spesso (ma non sempre!) la pressione delle vie aeree si riduce nello sforzo inefficace, per l’incapacità del ventilatore meccanico di adeguarsi in maniera istantanea, uguale e contraria, alle pertubazioni pressorie indotte dal paziente.

Un’ultima considerazione sulla figura 2: avrai visto sicuramente le altre due asincronie…

Ed ora entriamo nel merito del problema di questo post. Esaminiamo il monitoraggio in figura 3: sono tre sforzi inefficaci quelli che vediamo?

Figura 3

Nella figura 4 ti propongo l’esercizio di analizzare la figura 3 con il metodo RESPIRE (vedi post del 20/08/2017 e del 24/09/2017), applicato alla sola fase espiratoria (se hai fretta o non ti interessa, puoi passare direttamente alla visione della figura 5). Dopo aver riconosciuto (R) le curve di pressione e flusso, è stata identificata l’espirazione E. Bisogna quindi supporre (S) come dovrebbero essere le curve se il paziente fosse passivo in espirazione: la pressione delle vie aeree dovrebbe essere sul valore di PEEP (riga tratteggiata orizzontale sulla curva di pressione) ed il flusso espiratorio dovrebbe essere decrescente. Nella figura si vede che la parte finale del flusso è decrescente come nei pazienti passivi. Quindi prolungo fino all’inizio dell’espirazione questa curva di flusso espiratorio (curva tratteggiata bianca). Metto il paziente (P) tra le curve di pressione e flusso e guardo se queste gli si avvicinano (I, attività inspiratoria) o allontanano (E, attività espiratoria) rispetto alle tracce teoriche. Vediamo indiscutibilmente che quando il flusso espiratorio si avvicina allo zero, la pressione delle vie aeree scende (frecce rosse). Quindi concludiamo che c’è un’attività inspiratoria nella fase espiratoria, non seguita dall’attivazione del trigger. E’ uno sforzo inefficace.

Figura 4

Guardiamo ora la figura 5: si nota la ripetuta attivazione di due trigger inspiratori ravvicinati, separati da una brevissima fase espiratoria. Questa asincronia è definita doppio trigger (vedi post del 26/12/2014), ed il suo criterio diagnostico sulla curva di flusso è dato dalla presenza di due trigger inspiratori separati da una espirazione di durata inferiore alla metà del tempo inspiratorio medio (1,2).

Figura 5

Nella figura 3 abbiamo 3 sforzi inefficaci, nella figura 5 invece vi sono 3 doppi trigger. Due asincronie che possono richiedere trattamenti opposti: nel paziente con sforzo inefficace può essere indicata la riduzione del supporto inspiratorio (3), mentre l’aumento del supporto inspiratorio può essere appropriato in quello con doppio trigger (4).

Le figure 3 e 5 sono state prese dal medesimo paziente, ad un solo minuto di distanza l’una dall’altra e con la stessa, identica impostazione del ventilatore. A questo paziente aumentiamo o riduciamo il supporto inspiratorio?

Risolveremo facilmente il problema se ragioniamo per capire l’interazione paziente-ventilatore piuttosto che per classificare le asincronie.

Nel caso proposto, le due asincronie sono la manifestazione di un identico problema: il ciclaggio anticipato secondario ad un supporto inspiratorio insufficiente per entità e durata. Analizziamo il significato di questa affermazione mettendo a confronto il monitoraggio della figura 3 (a destra) e della figura 5 (a sinistra) (figura 6).

Figura 6

Rispetto alle precedenti immagini, compare in aggiunta una curva bianca sovrapposta alla traccia della pressione delle vie aeree: è una traccia generata dall’attività elettrica diaframmatica. La contrazione del diaframma (e quindi l’inspirazione del paziente) avviene durante la salita della curva bianca, cioè l’intervallo compreso tra le due linee tratteggiate verticali azzurre. Sia nello sforzo inefficace che nel doppio trigger vediamo che il flusso inspiratorio erogato dal ventilatore termina (la linea tratteggiata verticale rossa) prima che sia finita l’attività inspiratoria del paziente: questo è il ciclaggio anticipato, cioè il passaggio dall’inspirazione all’espirazione (definito ciclaggio) che avviene in anticipo rispetto alla conclusione dell’inspirazione del paziente. In altre parole, il paziente continua ad inspirare anche quando il ventilatore ha terminato la propria fase inspiratoria.

La persistente attività inspiratoria nella prima fase della espirazione determina il richiamo del flusso verso la linea dello zero. Nello sforzo inefficace l’intensità della inspirazione del paziente non è sufficiente a triggerare nuovamente il ventilatore, mentre nel doppio trigger sì. Nella figura 6 la maggior intensità dell’inspirazione del paziente nel doppio trigger è confermata dalla maggior ampiezza della curva di depolarizzazione diaframmatica rispetto allo sforzo inefficace.

Per risolvere entrambe le asincronie viste in precedenza dobbiamo quindi eliminare il ciclaggio anticipato, che ne è la causa, prolungando la durata della fase inspiratoria del ventilatore. In questo caso la soluzione migliore è l’aumento del supporto inspiratorio. Questo determinerebbe infatti un maggior picco di flusso inspiratorio e quindi un più tardivo raggiungimento del trigger espiratorio (vedi post del 27/12/2017). La riduzione del trigger espiratorio (un’altra possibilità) non sarebbe sufficiente in questo caso, visto che il prolungamento del decadimento del flusso inspiratorio (le linee tratteggiate arancioni indicate dalle frecce) incrocia la linea di zero flusso comunque prima della fine della inspirazione neurale.

Il doppio trigger è una tipica espressione del ciclaggio anticipato, mentre il “classico” sforzo inefficace è espressione di un carico soglia eccessivo per la forza del paziente. E’ importante riconoscere i casi in cui sforzo inefficace è causato dal ciclaggio anticipato e non dal carico soglia,  per evitare di attuare un trattamento opposto a quello corretto.

Lo sforzo inefficace è dovuto al ciclaggio anticipato, e quindi va trattato come doppio trigger, se, qualora efficace, determinasse un doppio trigger. In questo caso infatti lo sforzo inefficace è in realtà un doppio trigger inefficace. Quando lo sforzo inefficace fa parte di un doppio trigger, il problema alla radice è il doppio trigger; se non ci fosse il doppio trigger non ci sarebbe nemmeno lo sforzo inefficace.

Un’immagine finale per sintetizzare il concetto. Lascio a te il commento:

Figura 7

Riassumiamo il contenuto del post in tre punti:
1) da un punto di vista clinico, è più utile capire l’interazione paziente-ventilatore che classificare le asincronie;
2) il doppio trigger può camuffarsi da sforzo inefficace se il secondo trigger è inefficace; il problema principale è però il doppio trigger;
3) in questi casi il trattamento deve essere diretto alla causa di entrambe le asincronie: il ciclaggio anticipato. Risolto quello, scompariranno sia lo sforzo inefficace che il doppio trigger.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.

1. Colombo D, Cammarota G, Alemani M, et al.: Efficacy of ventilator waveforms observation in detecting patient–ventilator asynchrony: Critical Care Medicine 2011; 39:2452–2457
2. Thille AW, Rodriguez P, Cabello B, et al.: Patient-ventilator asynchrony during assisted mechanical ventilation. Intensive Care Medicine 2006; 32:1515–1522
3. Thille AW, Cabello B, Galia F, et al.: Reduction of patient-ventilator asynchrony by reducing tidal volume during pressure-support ventilation. Intensive Care Med 2008; 34:1477–1486
4. Gilstrap D, MacIntyre N: Patient–Ventilator Interactions. Implications for Clinical Management. American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine 2013; 188:1058–1068

Ventilazione meccanica in anestesia e complicanze polmonari postoperatorie.

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La ventilazione meccanica può ridurre le complicanze polmonari postoperatorie? Come? Risponderemo a questa domanda analizzando il caso di un paziente, che chiameremo Valerio, sottoposto a emicolectomia sinistra laparoscopica. Un caso che può essere interessante anche per chi non pratica l’anestesia…

Valerio è obeso (Body Mass Index 32 kg/m2), con un peso ideale di 80 kg. L’intervento a cui è sottoposto ha la durata di alcune ore, con pneumoperitoneo in posizione di Trendelenburg. Per interventi di questo tipo, le complicanze polmonari postoperatorie sono frequenti (nei pazienti con ASA > 2 si verificano in un terzo dei casi) e si associano ad un incremento della mortalità ospedaliera (1). Facciamo quindi un buon servizio se possiamo contribuire a prevenirle con una buona ventilazione meccanica.

So per esperienza che la prima domanda che viene in mente a questo proposito è: quale modalità di ventilazione? A mio parere qualsiasi modalità va bene, se utilizzata correttamente. Qualsiasi modalità può essere nociva se i criteri di ventilazione non sono corretti. In particolare si possono ridurre le complicanze se si impostano appropriatamente volume corrente e PEEP. Ribadisco, qualunque sia la modalità di ventilazione. Se non ne sei convinto, scrivi le tue perplessità in un commento, magari dopo aver letto il post del 16/12/2015.

Il volume corrente è abbastanza facile da impostare. Infatti è ormai ben supportato il ricorso alla scelta di un volume “protettivo” (cioè fisiologico) anche in anestesia, stimato approssimativamente in 6-8 ml/kg di peso ideale (2). Per Vittorio potrebbe essere adeguato un volume corrente tra 480 e 640 ml: la scelta nel caso reale è stata di 500 ml.

Sulla PEEP esistono invece più incertezze (3), anche legate al fatto che spesso ci si fa la domanda sbagliata: “meglio una PEEP alta o una PEEP bassa?” (4). E’ una approccio classico, ma probabilmente non molto sensato. Infatti in alcuni casi può essere meglio una PEEP alta, in altri una PEEP bassa. Nei pazienti con ARDS ci siamo abituati a ragionare in maniera individualizzata scegliendo la PEEP che minimizza la driving pressure, cioè la differenza tra pressione di plateau e PEEP (vedi anche post del 18/10/2015). La scelta della PEEP che si associa alla minor driving pressure sembra una scelta molto ragionevole anche per ridurre le complicanze postoperatorie in anestesia (5).

L’intervento di Vittorio prevede diverse fasi, nelle quali può cambiare la meccanica respiratoria per effetto delle diverse combinazioni tra posizione (supina o Trendelenburg) e pneumoperitoneo (assente o presente). Ho valutato la PEEP che si associa alla minor driving pressure nelle diverse fasi, vediamo il risultato.

Fase 1: posizione supina senza pneumperitoneo

Dopo l’induzione ho applicato due livelli di PEEP, 5 e 10 cmH2O. Nella figura 1 sono riprodotte le curve di pressione.

Figura 1

Nel riquadro bianco vediamo pressione di plateau (Pplat) e PEEP (cerchiata in rosso). Ho aggiunto in bianco il valore della driving pressure, che è di 9 cmH2O a PEEP 5 e 10 cmH2O a PEEP 10. Possiamo concludere che la modificazione della PEEP non ha avuto un impatto significativo sulla driving pressure (ritengo trascurabile una differenza di 1 cmH2O nelle pressioni delle vie aeree*, a meno che si inserisca in un trend ben identificabile.). Visto che la PEEP più alta non migliora (cioè non riduce) la driving pressure, scelgo la PEEP di 5 cmH2O, che mi consente di ottenere il medesimo risultato con la minor pressione applicata. Questa fase dell’intervento è molto breve, abbiamo fatto questo esercizio per “conoscere” il paziente ed avere un valore basale su cui confrontare le modificazioni che potrebbero essere indotte da posizione, pressione addominale ed eventuali complicanze. La miglior compliance (volume corrente/driving pressure) in questa fase è circa 55 ml/cmH2O.

Fase 2: posizione supina con pneumoperitoneo

Anche questo periodo è abbastanza breve, proviamo comunque a valutare che modificazioni ha prodotto lo pneumoperitoneo e quale PEEP è preferibile in questa condizione. Nella figura 2 possiamo vedere la driving pressure a diversi livelli di PEEP:

Figura 2

A parità di volume corrente, vediamo che la driving pressure a 5 cmH2O di PEEP aumenta moltissimo rispetto alla fase precente (da 9 a 20 cmH2O). L’aumento della PEEP (diversamente dalla fase precedente) riduce notevolmente la driving pressure, che considero raggiungere il valore minimo (sempre con l’approssimazione di 1 cmH2O) già a 15 cmH2O di PEEP. La miglior compliance in questa fase è diventata circa 40 ml/cmH2O . Avrai forse notato che la pressione di plateau non si modifica aumentando la PEEP da 5 a 10 cmH2O, un fenomeno interessante e complesso di cui oggi non parleremo.

Fase 3: Trendelenburg con pneumoperitoneo

Questa è la condizione che viene mantenuta per la maggior parte del tempo operatorio. La ventilazione in questa fase è pertanto quella che può avereil maggior impatto sulle complicanze polmonari postoperatorie. Ho applicato in rapida successione PEEP crescenti da 0 a 20 cmH2O, calcolando per ciascuna la driving pressure.

Figura 3

Nella figura 3 vediamo il collage della pressione delle vie aeree alle diverse PEEP. E’ una sequenza ottenuta con incrementi successivi di 2 cmH2O, che consente di avere una bella documentazione del caso. Nella pratica clinica più pragmaticamente si potrebbero testare livelli incrementali di PEEP di 4-5 cmH2O alla volta. Una volta trovata la PEEP che si associa alla miglior driving pressure, si può raffinire il risultato rilevando la driving pressure con PEEP aumentata e ridotta di 2 cmH2O rispetto a questo valore.

Il risultato non propone certamente l’applicazione di una PEEP “convenzionale”: la driving pressure diventa minima a 18-20 cmH2O (la compliace è circa 35 ml/cmH2O). Può rimanere il dubbio se ulteriori aumenti di PEEP avrebbero potuto ridurre ulteriormente la driving pressure, ma ho preferito evitare di testare valori più elevati per due motivi: 1) a 18-20 cmH2O di PEEP la driving pressure si è comunque ridotta a valori ritenuti accettabili, cioè ≤ 15 cmH2O. Siamo comunque al limite massimo della driving pressure, dato che suggerisce di non aumentare il volume corrente (driving pressure=volume corrente/compliance); 2) nella posizione di Trendelenburg il ritorno venoso è favorito (il cuore è più in basso dell’addome). Infatti la stabilità cardiovascolare di Valerio era ottimale anche alle PEEP più elevate. Ma bisogna pensare anche al deflusso dal circolo cerebrale, che avviene invece “in salita” (la testa è più in basso del cuore). L’effetto della PEEP sulla pressione atriale destra (che condiziona il ritorno venoso) è complesso, ma in assenza di monitoraggi più avanzati preferisco non eccedere nel valore di PEEP.

Fase 4: Trendelburg senza pneumoperitoneo

In questa fase si procede all’estrazione della porzione resecata del colon attraverso una piccola incisione sulla parete addominale. La sua durata è relativamente breve, vediamo comunque come si modifica la driving pressure con la normalizzazione della pressione addominale.

Figura 4

Vi è un cambio sostanziale rispetto alla fase precedente. Arrivati ai 6-8 cmH2O di PEEP, la driving pressure ha raggiunto il suo valore minimo (compliance circa 45 ml/cmH2O).

In sintesi: Valerio aveva una PEEP ottimale di 5 cmH2O dopo l’induzione dell’anestesia, quindi è diventata 15 cmH2O con l’inizio dello pneumoperitoneo, è aumentata a 18-20 cmH2O durante la fase in Trendelenburg con pneumoperitoneo, è scesa a 6-8 cmH2O con il Trendelenburg senza pneumoperitoneo.

In conclusione, possiamo riassumere quando detto finora in alcuni punti:

– la ventilazione meccanica può avere un impatto sull’outcome del paziente sottoposto a chirurgia, soprattutto nelle procedure di almeno 2 ore di durata e nei pazienti con maggior rischio perioperatorio;
– la modalità di ventilazione è indifferente, se si scelgono correttamente volume corrente e PEEP;
– il volume corrente dovrebbe essere di 6-8 ml/kg di peso ideale, comunque senza superare una driving pressure di 15 cmH2O;
– la PEEP può essere ragionevolmente scelta per ridurre la driving pressure (una volta definito il volume corrente);
– i valori ottimali di PEEP possono variare da paziente a paziente, ed anche (e molto) nello stesso paziente durante tempi diversi dell’intervento.

Questo è quanto di ragionevole possiamo fare alla luce delle conoscenze attuali. La medicina (se vuole essere, per quanto possibile, scientifica) non deve essere vista come una verità definitivamente acquisita: dobbiamo essere sempre disponibli a cambiare idea se emergeranno nuove conoscenze.

Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.
* la pressione delle vie aeree di solito è misurata con la precisione di ±1 cmH2O.

Bibliografia.

1. Fernandez-Bustamante A, Frendl G, Sprung J, et al.: Postoperative Pulmonary Complications, Early Mortality, and Hospital Stay Following Noncardiothoracic Surgery: A Multicenter Study by the Perioperative Research Network Investigators. JAMA Surgery 2017; 152:157

2. Guay J, Ochroch EA, Kopp S: Intraoperative use of low volume ventilation to decrease postoperative mortality, mechanical ventilation, lengths of stay and lung injury in adults without acute lung injury [Internet]. Cochrane Database Syst Rev 2018; 7:CD011151

3. Neto AS, Hemmes SNT, Barbas CSV, et al.: Protective versus Conventional Ventilation for Surgery: A Systematic Review and Individual Patient Data Meta-analysis. Anesthesiology 2015; 123:66–78

4. PROVE Network: High versus low positive end-expiratory pressure during general anaesthesia for open abdominal surgery (PROVHILO trial): a multicentre randomised controlled trial. Lancet 2014; 384:495–503

5. Neto AS, Hemmes SNT, Barbas CSV, et al.: Association between driving pressure and development of postoperative pulmonary complications in patients undergoing mechanical ventilation for general anaesthesia: a meta-analysis of individual patient data. The Lancet Respiratory Medicine 2016; 4:272–280

PEEP e manovre di reclutamento nei pazienti obesi in anestesia: finalmente (?) il trial randomizzato controllato multicentrico!

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Nel post del 31 maggio abbiamo riflettuto sulla PEEP in un paziente obeso sottoposto ad anestesia generale. Pochi giorni dopo (il 3 giugno) è stato pubblicato online su JAMA “Effect of Intraoperative High Positive End-Expiratory Pressure (PEEP) With Recruitment Maneuvers vs Low PEEP on Postoperative Pulmonary Complications in Obese Patients” (1), un trial controllato e randomizzato, multicentrico che ha arruolato circa 2000 pazienti. Procediamo quindi ad una lettura critica dello studio per comprenderlo ed interpretarne correttamente i risultati.

Partiamo dalla conclusione dello studio: “Tra i pazienti obesi sottoposti a chirurgia in anestesia generale, una strategia di ventilazione meccanica intraoperatoria con un più alto livello di PEEP e manovre di reclutamento alveolare, rispetto a una strategia con un basso livello di PEEP, non ha ridotto le complicanze polmonari postoperatorie.”

Prima di guardare i risultati, analizziamo con attenzione che tipo di pazienti sono stati studiati, in quali interventi, e quali erano le strategie ventilatorie a confronto: un risultato acquisisce un senso solo ed esclusivamente alla luce dei metodi con il quale è stato ottenuto.

Tipo di pazienti ed intervento: Sono stati arruolati nello studio i pazienti obesi (body mass index > 35 kg/m2) sottoposti a chirurgia addominale di almeno 2 ore di durata, a rischio medio-elevato di complicanze polmonari postoperatorie. La maggior parte dei pazienti (82%) ha eseguito un intervento laparoscopico. Oltre la metà dei pazienti (54%) ha eseguito l’intervento in posizione di anti-Trendelenburg o seduta (“a testa in su“, cioè con il torace più alto dell’addome), mentre solo il 8% dei pazienti era in posizione di Trendelenburg (“a testa in giù“, cioè con il torace più in basso dell’addome). Questi dati non li trovi nell’articolo, ma nella tabella e6 del supplemento 4 (clicca qui per scaricarlo). Nonostante questo dato sia difficile da trovare, è decisivo per interpretare i risultati: in Trendelenburg il peso dell’addome grava sul diaframma e quindi sui polmoni, aumentando la pressione intratoracica e riducendo la capacità funzionale residua (figura 1, a sinistra). Al contrario, in anti-Trendelenburg il peso dell’addome viene allontanato dai polmoni riducendo la pressione intratoracica (figura 1, a destra) (4-6).

Figura 1

L’effetto della PEEP è  opposto nelle due posizioni. Nella posizione di Trendelenburg (figura 2, a sinistra), ancor più se con pneumoperitoneo, la PEEP agisce controbilanciando la pressione sul diaframma dei visceri addominali, facendo quindi riguadagnare ai polmoni la capacità funzionale residua persa con il Trendelenburg. Nella posizione di anti-Trendelenburg (figura 2, a destra), la PEEP agisce abbassando un diaframma già sgravato dal peso dei visceri addominali. Quindi in Trendelenburg la stessa quantità di PEEP dovrebbe avere un effetto sui polmoni e sulla meccanica respiratoria ben diverso dalla posizione di anti-Trendelenburg.

Figura 2

Per questi motivi, dato l’esiguo numero di pazienti in Trendelenburg arruolati nel trial, dobbiamo avere chiaro che i risultati non si possono estendere ai pazienti in Trendelenburg. Che, ahimè, sono proprio i pazienti più difficili da ventilare…

Modalità di ventilazione meccanica a confronto: tutti i pazienti sono stati ventilati con un volume corrente di 7 ml/kg di peso ideale. Il gruppo “bassa PEEP” (987 pazienti) riceveva 4 cmH2O di PEEP, uguale per tutti i pazienti. Il gruppo “alta PEEP+reclutamento” (989 pazienti) invece aveva 12 cmH2O di PEEP associati a manovre di reclutamento. Queste erano ottenute con l’incremento del volume corrente di 4 ml/kg di peso ideale alla volta (mantenendo i 12 cmH2O di PEEP) fino a raggiungere una pressione di plateau tra i 40 e 50 cmH2O. Dopo aver erogato 3 respiri a 40-50 cmH2O di pressione di plateau, il volume corrente era riportato agli iniziali 7 ml/kg di peso ideale. Le manovre di reclutamento erano eseguite dopo l’induzione, quindi ogni ora, dopo ogni deconeconnessione dal ventilatore meccanico e prima dell’estubazione. E’ fondamentale capire che lo studio confronta solo ed esclusivamente queste due strategie di ventilazione meccanica: 4 cmH2O di PEEP (non 2 o 6, ma proprio 4), applicati sempre e comunque a tutti i pazienti obesi, oppure 12 di PEEP (non 10 o 14, ma proprio 12) sempre associati a quel tipo di reclutamento, applicati sempre e comunque a tutti i pazienti obesi.

Entrambi questi approcci sono profondamenti diversi da quello proposto nel post del 31 maggio 2019, in cui si propone una PEEP variabile da paziente a paziente (basata sulla riduzione della driving pressure) in assenza di manovre di reclutamento. Nella mia pratica clinica riservo le manovre di reclutamento a quelle condizioni di ipossiemia intraoperatoria in cui ritengo esse possano essere appropriate.

Obiettivo principale dello studio: rilevare il numero di complicanze polmonari postoperatorie nei primi 5 giorni dopo l’intervento. E’ stata definita come complicanza polmonare postoperatoria la comparsa di almeno una di queste condizioni: insufficienza respiratoria (anche lieve, cioè con PaO2 < 60 mmHg o SpO2 < 90% senza ossigenoterapia per almeno 10 minuti), ARDS, broncospasmo, nuovi infiltrati polmonari, infezioni polmonari, polmoniti da aspirazione, versamento pleurico, atelectasia, edema cardiopolmonare, pneumotorace.

Risultati: Le complicanze polmonari postoperatorie hanno avuto una incidenza simile nei pazienti “alta PEEP+reclutamento” ed in quelli “bassa PEEP” (21.3 % vs. 23.6 %, p=0.23). (Cosa significa esattamente p=0.23? Se vuoi approndire, vedi la nota dopo la bibligrafia). Quindi non ci sono elementi per ritenere che una delle due strategie sia migliore dell’altra. Questo risultato di parità è stato ottenuto nonostante una driving pressure più bassa ed una ossigenazione migliore nel gruppo “alta PEEP+reclutamento“. Questo gruppo ha però ha avuto una maggior incidenza di bradicardia ed ipotensione, quest’ultima sempre più chiaramente associata all’aumento di complicanze postoperatorie (7-9). L’ipotensione nei pazienti in Trendelenburg con alta PEEP è facile da prevedere, se si ragiona in termini di ritorno venoso: aumento della pressione intratoracica associato alla riduzione della pressione sistemica media (vedi post del 30/09/2018).

Conclusioni: le conclusioni proposte nello studio le abbiamo viste all’inizio. Qui dò spazio ad alcune mie personali considerazioni. Dopo aver letto questo studio, ho la sensazione di saperne come prima… Il dato più importante è forse l’ulteriore conferma che le manovre di reclutamento eseguite di routine non hanno il supporto della letteratura.

Oggi si ritiene erroneamente che i trial randomizzati, controllati, multicentrici siano il miglior modo per darci le risposte utili alla cura dei pazienti. Ma la qualità della risposta dipende dalla qualità della domanda, più che dal rigore formale. Sono convinto che nell’articolo analizzato oggi ci sia una carenza nella qualità della domanda: cercare un numero magico di PEEP valido per tutti mi sembra davvero semplicistico e contario alle conoscenze finora accumulate.

Un merito di questo trial è quello di rafforzare la convinzione che la strada migliore per scegliere la PEEP sia quella di individualizzarla. A mio parere per farlo è necessario tener conto della meccanica respiratoria del paziente e dell’impatto su di essa della posizione, della tecnica chirurgica (pneumoperitoneo in laparoscopia e divaricatori autostatici nella chirurgia open) e degli effetti emodinamici. Ad oggi non possiamo dire con certezza quale sia la modalità “giusta” di scelta individualizzata della PEEP: la scelta di minimizzare la driving pressure è per ora la migliore, avendo un razionale fisiologico e studi clinici a favore o neutrali.

Il tempo ed una ricerca clinica di qualità (più che di quantità) ci aiuteranno a trovare strade sempre migliori.

Come sempre, un sorriso agli amici di ventilab.

Bibliografia.

1. Writing Committee for the PROBESE Collaborative Group of the PROtective VEntilation Network (PROVEnet) for the Clinical Trial Network of the European Society of Anaesthesiology, Bluth T, Serpa Neto A, et al.: Effect of Intraoperative High Positive End-Expiratory Pressure (PEEP) With Recruitment Maneuvers vs Low PEEP on Postoperative Pulmonary Complications in Obese Patients: A Randomized Clinical Trial. JAMA 2019; 321:2292-2305
2. Pirrone M, Fisher D, Chipman D, et al.: Recruitment Maneuvers and Positive End-Expiratory Pressure Titration in Morbidly Obese ICU Patients: Critical Care Medicine 2016; 44:300–307
3. Fahy G, Barnas M, Flowers JL, et al.: The Effects of Increased Abdominal Pressure on Lung and Chest Wall Mechanics During Laparoscopic Surgery. Anesthesia & Analgesia 1995; 81:744–750
4. De Leon A, Thörn S-E, Ottosson J, et al.: Body positions and esophageal sphincter pressures in obese patients during anesthesia. Acta Anaesthesiologica Scandinavica 2010; 54:458–463
5. Lehavi A, Livshits B, Katz Y: Effect of position and pneumoperitoneum on respiratory mechanics and transpulmonary pressure during laparoscopic surgery. Laparosc Surg 2018; 2:60–60
6. Couture EJ, Provencher S, Somma J, et al.: Effect of position and positive pressure ventilation on functional residual capacity in morbidly obese patients: a randomized trial. Can J Anesth/J Can Anesth 2018; 65:522–528
7. Futier E, Lefrant J-Y, Guinot P-G, et al.: Effect of Individualized vs Standard Blood Pressure Management Strategies on Postoperative Organ Dysfunction Among High-Risk Patients Undergoing Major Surgery: A Randomized Clinical Trial. JAMA 2017; 318:1346
8. Meng L, Yu W, Wang T, et al.: Blood Pressure Targets in Perioperative Care: Provisional Considerations Based on a Comprehensive Literature Review. Hypertension 2018; 72:806–817
9. Wesselink EM, Kappen TH, Torn HM, et al.: Intraoperative hypotension and the risk of postoperative adverse outcomes: a systematic review. British Journal of Anaesthesia 2018; 121:706–721

Nota: Nel mondo esistono infiniti pazienti che possono essere sottoposti a “alta PEEP+reclutamento” o “bassa PEEP” (li possiamo considerare infiniti perchè includiamo anche quelli che saranno ventilati in futuro): queste sono le popolazioni “alta PEEP+reclutamento” o “bassa PEEP”. I circa 2000 pazienti dello studio possono essere considerati come campioni di queste popolazioni: in questi campioni le complicanze polmonari postoperatorie sono state indiscutibilmente il 2.3% superiori nel gruppo “bassa PEEP”(23.6 % vs 21.3 %). Ma noi siamo siamo interessati a generalizzare il risultato alla popolazione, a cui appartengono anche i pazienti che anestetizzeremo e ventileremo domani e nei giorni a venire. Il valore di p indica la probabilità che la popolazione dei pazienti con “alta PEEP+reclutamento” e la popolazione dei pazienti “bassa PEEP” abbiano lo stesso numero di complicanze polmonari postoperatorie (compatibilmente con i dati ottenuti nei campioni arruolati nello studio). La p di 0.23 dice che c’è il 23 % di probabilità che queste popolazioni abbiano la stessa indicenza di complicanze. E quindi il 77% di probabilità che queste complianze siano diverse nelle due popolazioni (quindi che uno dei due trattamenti sia migliore dell’altro). Per convenzione (ampiamente discutibile) in ambito scientifico (e biomedico in particolare), si dice che un trattamento è efficace (è “statisticamente significativo”) se esiste meno del 5 % di probabilità che il dato che interessa sia uguale nelle popolazioni (quindi se la p è minore di 0.05). Negli altri casi (come nello studio che abbiamo commentato) è meglio evitare di sostenere con certezza che si è esclusa l’efficacia di un trattamento, semplicemente non si è riusciti a dimostrarne l’efficacia. Come ci ricordano due grandi statistici “L’assenza di evidenza non è l’evidenza dell’assenza” (Altman DG, Bland JM: Statistics notes: Absence of evidence is not evidence of absence. BMJ 1995; 311:485–485).

Weaning con il minimo sforzo.

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Il mese scorso è stato pubblicato su JAMA un trial randomizzato, controllato, multicentrico sullo svezzamento (weaning) dalla ventilazione meccanica (1). Quando una prestigiosa rivista di medicina non specialistica si occupa di ventilazione meccanica dobbiamo ritenere che lo studio sia particolarmente importante. Quindi non perdiamo l’occasione di analizzarlo criticamente per capirne gli insegnamenti e coglierne i limiti.

Il weaning dalla ventilazione meccanica ha come momento centrale il trial di respiro spontaneo, che è un test per capire se un pazientesarà in grado di respirare senza ventilatore meccanico. Il trial di respiro spontaneo consiste nel sospendere o ridurre al minimo il supporto ventilatorio. Questo può essere ottenuto o distaccando fisicamente il paziente dal ventilatore (ventilazione con tubo a T) oppure mantenendo la ventilazione meccanica (senza PEEP) con un supporto inspiratorio minimo  (di solito 5-8 cmH2O di pressione di supporto). La durata ottimale del trial di respiro spontaneo è dibattuta, ma solitamente è compresa tra 30 e 120 minuti.

Si procede all’estubazione se il paziente ha sopportato bene il trial di respiro spontaneo. Viceversa, se durante tale periodo si sono manifestati segni e sintomi di insufficienza respiratoria, si mantiene l’intubazione e si riprende la ventilazione meccanica. (Se hai dei dubbi sullo svezzamento dalla ventilazione meccanica o sui termini finora utilizzati, puoi leggere il post del 26/11/2017.)

Lo studio di JAMA mette a confronto il successo dell’estubazione tra il trial respiro spontaneo il meno impegnativo possibile (30 minuti con 7 cmH2O di pressione di supporto) ed il trial di respiro spontaneo il più impegnativo possibile (120 minuti con tubo a T, cioè senza alcun aiuto da parte del ventilatore meccanico). L’obiettivo della ricerca è capire se per estubare un paziente è meglio essere poco esigenti, col rischio di trovarsi di fronte ad una estubazione fallita per averne sopravvalutato le risorse, oppure essere molto esigenti, rischiando di non estubare persone che invece avrebbero potuto farcela.

Ricordiamo che l’estubazione fallita si associa ad una elevata mortalità, per cui i rischi di fallimento devono essere ben ponderati.

Le conclusioni dell’abstract sono: “Among patients receiving mechanical ventilation, a spontaneous breathing trial consisting of 30 minutes of pressure support ventilationcompared with 2 hours of T-piece ventilation, led to significantly higher rates of successful extubation. These findings support the use of a shorter, less demanding ventilation strategy for spontaneous breathing trials.” (trad.: “Nei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica, un trial di respiro spontaneo di 30 minuti con Pressione di Supporto, rispetto a 2 ore di ventilazione con tubo a T, porta ad una più elevata percentuale di estubazioni coronate da successo. Questi dati supportano l’uso di una strategia di weaning più breve e meno impegnativa per i trial di respiro spontaneo.“).

In realtà il messaggio corretto è  meno ovvio di quanto queste conclusioni lascino supporre.

Un elemento fondamentale per interpretare correttamente i risultati dello studio è che esso ha preso in considerazione l’esito di un solo trial di respiro spontaneo. Tutti gli eventuali successivi trial di respiro spontaneo (conseguenti al fallimento del primo o ripetuti dopo una eventuale reintubazione) non erano protocollizzati e potevano essere fatti in qualunque modo, indipendentemente dall’esito della randomizzazione.

Questo significa che i risultati di questo studio valgono solamente per un solo tentativo di weaning. I pazienti che si estubano con un solo tentativo sono circa la metà dei pazienti intubati, quelli più semplici da curare, con svezzamento rapido e facile, bassa mortalità e breve durata della degenza in Terapia Intensiva (2). L’insegnamento principale che portiamo a casa dallo studio conferma quanto già sapevamo: quando si analizza l’esito di un solo trial di respiro spontaneo, è inutile prolungarne la durata oltre i 30 minuti, sia quando lo si conduce con tubo a T (3) che quando si utilizza la pressione di supporto (4).

Da notare che i principali studi clinici controllati sullo svezzamento hanno preso in considerazione un solo trial di respiro spontaneo e che quindi i loro risultati possono guidarci solo sui pazienti con weaning più facile.

La vera sfida del weaning dalla ventilazione meccanica è però l’altro 50% di pazienti, ovvero quelli in cui si susseguono frustranti fallimenti dei trial di respiro spontaneo ed il processo di svezzamento dalla ventilazione meccanica si prolunga per giorni o settimane. Questi sono i pazienti su cui è più difficile, ma forse più importante, fare la differenza. Su di essi questo studio (e gli altri ad esso simili) non ci insegna nulla.

Come dobbiamo comportarci quindi con i pazienti che falliscono i trial di respiro spontaneo? Limitiamo il ragionamento ai pazienti intubati candidati all’estubazione, escludendo in questa sede ogni considerazione sui paziente tracheotomizzato.

  • è ragionevole, e con sufficienti dati a favore, limitare la durata del trial di respiro spontaneo a 30 minuti e riproporlo tutti i giorni in cui ve ne siano le indicazioni.
  • diversamente dalla ventilazione con tubo a T, mantenere il paziente collegato al ventilatore è comodo e consente di misurare il volume corrente e visualizzare il monitoraggio grafico: per questo motivo è preferibile, nella maggior parte dei casi, il trial di respiro spontaneo con pressione di supporto senza PEEP.
  • nessuno sa quale sia il valore ottimale di pressione di supporto da utilizzare. Personalmente preferisco utilizzare non più di 5 cmH2O, poichè ogni incremento di pressione di supporto riduce lo sforzo del paziente rispetto a quello che dovrà sostenere se sarà estubato (5): il lavoro respiratorio durante il trial di respiro spontaneo è sensato che sia il più possibile simile a quello che si avrà dopo l’eventuale estubazione.

Come abbiamo visto, la medicina basata sull’evidenza ci dà una mano nella gestione dello svezzamento facile ma non offre approcci affidabili nella gestione del weaning difficile. A 33 anni di distanza appare ancora valida una affermazione di Milic-Emili: “At present, weaning is still an art.” (6): questa consapevolezza ci induce a trovare le risposte nella articolata dialettica tra clinica e ricerca piuttosto che in deresponsabilizzanti “ricette universali”, che, proprio perchè tali, spesso rasentano la banalità.

Buon agosto a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia.

1. Subirà C, Hernández G, Vázquez A, et al.: Effect of Pressure Support vs T-Piece Ventilation Strategies During Spontaneous Breathing Trials on Successful Extubation Among Patients Receiving Mechanical Ventilation: A Randomized Clinical Trial. JAMA 2019; 321:2175-2182
2. Béduneau G, Pham T, Schortgen F, et al.: Epidemiology of Weaning Outcome according to a New Definition. The WIND Study. Am J Respir Crit Care Med 2017; 195:772–783
3. Esteban A, Alia I, Tobin MJ, et al.: Effect of spontaneous breathing trial duration on outcome of attempts to discontinue mechanical ventilation. American journal of respiratory and critical care medicine 1999; 159:512–518
4. Perren A, Domenighetti G, Mauri S, et al.: Protocol-directed weaning from mechanical ventilation: clinical outcome in patients randomized for a 30-min or 120-min trial with pressure support ventilation. Intensive Care Med 2002; 28:1058–1063
5. Sklar MC, Burns K, Rittayamai N, et al.: Effort to Breathe with Various Spontaneous Breathing Trial Techniques. A Physiologic Meta-analysis. American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine 2017; 195:1477–1485
6. Milic-Emili J: Is Weaning an Art or a Science? American Review of Respiratory Disease 1986; 134:1107–1108

Ventilazione non-invasiva ed edema polmonare cardiogeno: CPAP o BILEVEL?

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Nelle linea guida sulla ventilazione non-invasiva della European Respiratory Society e della American Thoracic Society le uniche due raccomandazioni “forti” sono a favore dell’utlizzo della ventilazione non-invasiva nella ipercapnia con riacutizzazione di BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) e nell’edema polmonare cardiogeno. Abbiamo già discusso in precedenza l’utilizzo della ventilazione non-invasiva nella riacutizzazione di BPCO (vedi post del 25/04/2018), ora ragioniamo sul suo utilizzo nei pazienti con edema polmonare cardiogeno.

L’applicazione di una pressione positiva intratoracica ha molteplici effetti benefici sulla disfunzione ventricolare sinistra e l’insufficienza respiratoria ad essa associata.

Effetto della ventilazione positiva su ritorno venoso, portata cardiaca e postcarico del ventricolo sinistro nell’edema polmonare cardiogeno.

Si sente dire che un effetto positivo della ventilazione meccanica nell’edema polmonare sia la riduzione del ritorno venoso. Questa affermazione non è banale e merita qualche riflessione. L’edema polmonare cardiogeno è caratterizzato da un profilo di bassa portata: se il ventricolo sinistro potesse avere una portata cardiaca normale, non avremmo una condizione di edema polmonare. Abbiamo visto in altre occasioni come portata cardiaca e ritorno venoso siano ovviamente uguali. Potrebbe quindi apparire paradossale che la riduzione del ritorno venoso in una condizione di bassa portata possa essere un evento favorevole: se si riduce il ritorno venoso, si riduce ulteriormente la portata cardiaca?

Per capire questo apparente paradosso, facciamo un salto indietro nel tempo di oltre 100 anni. Spesso pensiamo alla cosiddetta “legge di Starling” in termini di precarico. Ma a mio modo di vedere, riferendosi allo studio originale di Patterson e Starling del 1914 (2), si dovrebbe pensare alla “legge di Starling” in termini di ritorno venoso.

Figura 1

Nella figura è riprodotto il preparato anatomico utilizzato nella sperimentazione. Il sangue arriva all’atrio destro (cioè il ritorno venoso, segnato dalle frecce rosse) da un reservoir posto 35 cm al di sopra del cuore. Il ritorno venoso viene modificato da una clip a vite (freccia blu). Le variazioni di pressione venosa sono quindi secondarie alle variazioni del ritorno venoso: più si apre la clip a vite, più sangue arriva all’atrio destro, più aumenta la pressione venosa all’ingresso del cuore.

Figura 2

Vediamo ora cosa succede modificando il ritorno venoso (cioè aprendo e chiudendo la vite che lo regola). Ho modificato l’orientamento della figura 2 rispetto all’originale e, per i suddetti motivi, ho aggiunto all’asse della pressione venosa la dizione “ritorno venoso”.

Nella figura sono rappresentati i risultati degli esperimenti condotti in 9 cani. Possiamo vedere che, aumentando il ritorno venoso, la portata cardiaca inizialmente ha un incremento di notevole entità, ma progressivamente l’incremento di portata cardiaca si affievolisce (le curve riducono la pendenza). In alcuni soggetti, addirittura, la portata cardiaca si riduce quando il ritorno venoso diventa eccessivo per la capacità contrattile del ventricolo (la curve che si inclinano verso il basso nella parte terminale).

In parole semplici, l’aumento del ritorno venoso aumenta la portata cardiaca fintantoché il ventricolo riesce a smaltire tutto il flusso che gli arriva. Ma il ventricolo ha dei limiti alla propria capacità di eiezione, legati prevalentemente alla propria contrattilità ed al postcarico. Quando al ventricolo arriva più sangue di quanto esso sia capace di eiettare, questo si accumula a monte del cuore, aumentando le pressioni venose. Con un duplice effetto: la riduzione del ritorno venoso (vedi post del 30 aprile 2013) e l’edema polmonare idrostatico. E’ proprio quello che accade nell’edema polmonare: il ritorno venoso è eccessivo rispetto alla capacità di pompa del ventricolo sinistro.

Per questo motivo la pressione positiva intratoracica, pur riducendo il ritorno veoso, non dimuisce la portata cardiaca, che è già limitata dalla performance del ventricolo sinistro, ma adegua il ritorno venoso alle possibilità di eiezione.

La pressione positiva intratoracica riduce anche il postcarico del ventricolo sinistro, cioè il carico contro cui il ventricolo sinistro deve lavorare per eiettare il sangue. Il postcarico ha come determinante la pressione transmurale, cioè la differenza tra la pressione intravascolare e quella intratoracica. La riduzione della pressione transmurale e del postcarico hanno come effetto positivo la diminuzione del consumo di ossigeno miocardico a parità di portata cardiaca.

Effetto della ventilazione a pressione positiva sulla funzione respiratoria nell’edema polmonare cardiogeno.

I soggetti con edema polmonare acuto hanno una riduzione della compliance dell’apparato respiratorio (3). Questo significa che un respiro costa loro molta più fatica di quanto non accada ai soggetti senza edema polmonare. La CPAP è capace di aumentare la compliance dell’apparato respiratorio (4), ridimensionando questo problema. E’ però anche vero che l’applicazione di un supporto di pressione durante l’inspirazione (che la CPAP non eroga) porta ad una ulteriore riduzione del consumo di ossigeno dei muscoli respiratori (5), che nei pazienti con insufficienza cardiorespiratoria è comunque molto elevato (in media il 20% del consumo di ossigeno complessivo, con picchi anche oltre il 50%) (6).

CPAP o BILEVEL nell’edema polmonare cardiogeno?

Le linee guida ritengono equivalenti la scelta di una pressione positiva continua (CPAP) o di una con supporto inspiratorio (BILEVEL). Questo può essere ragionevole nei pazienti con edema polmonare senza evidenti segni di insufficienza dei muscoli respiratori (cioè senza ipercapnia, utilizzo dei muscoli accessori della ventilazione, respiro paradosso). Tuttavia nei pazienti con insufficienza dei muscoli respiratori o che non migliorano dispnea e tachipnea con la sola CPAP, ritengo che sia preferibile il supporto inspiratorio di una BILEVEL.

Con la ventilazione meccanica, c’è sempre il problema delle sigle. Per BILEVEL qui intendiamo una ventilazione che aumenta la pressione durante l’inspirazione, definita normalmente pressione di supporto nei ventilatori per ventilazione invasiva. Per la regolazione del supporto inspiratorio rimando ai post del 02/01/2014 e del 30/04/2017.

Quando preferire l’intubazione tracheale alla ventilazione non-invasiva nell’edema polmonare cardiogeno.

La ventilazione non-invasiva non è la ventilazione di scelta nei pazienti più gravi con disfunzione ventricolare sinistra. Infatti tutti gli studi hanno escluso i pazienti con shock cardiogeno, quindi le raccomandazioni alla ventilazione non-invasiva non sono estendibili ai pazienti che hanno bisogno di un supporto farmacologico del circolo. In questi pazienti potrebbe essere preferibile l’intubazione tracheale e la ventilazione meccanica invasiva, soprattutto se l’inizio della ventilazione non-invasiva non determina un rapido ed evidente miglioramento clinico.

La ventilazione non-invasiva (in qualsiasi condizione patologica) è poi da interrompere ogni volta che non sortisce rapidamente gli effetti clinici desiderati. Quando una terapia non funziona, deve essere cambiata. La non-invasività non è un valore se il trattamento è inefficace…In questi casi è meglio una intubazione precoce seguita da una estubazione precoce (come avviene di norma nell’edema polmonare se viene intubato) piuttosto che una intubazione tardiva che avrà poi un esito incerto.

Come sempre la nostra pratica clinica è meno banale degli slogan che cercano di semplificarla eccessivamente. Un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

 

Bibliografia.
1) Rochwerg B, Brochard L, Elliott MW, et al. Official ERS/ATS clinical practice guidelines: noninvasive ventilation for acute respiratory failure. Eur Resp J 2017;50(2):1602426.
2) Patterson SW, Starling EH. On the mechanical factors which determine the output of the ventricles. J Physiol 1914;48(5):357–79.
3) Broseghini C, Brandolese R, Poggi R, et al. Respiratory Mechanics during the First Day of Mechanical Ventilation in Patients with Pulmonary Edema and Chronic Airway Obstruction. Am Rev Respir Dis 1988;138(2):355–61.
4) Lenique F, Habis M, Lofaso F, Dubois-Randé JL, Harf A, Brochard L. Ventilatory and hemodynamic effects of continuous positive airway pressure in left heart failure. Am J Respir Crit Care Med 1997;155(2):500–5.
5) Manthous CA, Hall JB, Kushner R, Schmidt GA, Russo G, Wood LD. The effect of mechanical ventilation on oxygen consumption in critically ill patients. Am J Respir Crit Care Med 1995;151(1):210–4.
6) Field S, Kelly SM, Macklem PT. The Oxygen Cost of Breathing in Patients with Cardiorespiratory Disease. Am Rev Respir Dis 1982;126(1):9–13.


POSITIVE END-EXPIRATORY PRESSURE (PEEP) IN ANESTESIA E TERAPIA INTENSIVA – Brescia 16/11/2019

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Ho il piacere di invitarti al convegno “POSITIVE END-EXPIRATORY PRESSURE (PEEP) IN ANESTESIA E TERAPIA INTENSIVA” che si terrà la mattina di sabato 16 novembre p.v. a Brescia alla Fondazione Poliambulanza. Avremo come graditissimo ospite il prof. Salvatore Grasso dell’Università di Bari che tratterà “La PEEP nel paziente con ARDS“. A seguire ci saranno le relazioni “La PEEP nel paziente con BPCO”, “La PEEP in anestesia” e “L’impatto della PEEP sul sistema cardio-vascolare“ (tenute rispettivamente da Giuseppe Natalini, Rosalba Caserta ed Elena Malpetti di Fondazione Polaimbulanza). L’iscrizione è gratuita ma obbligatoria. Clicca qui per scaricare il programma con le istruzioni per l’iscrizione.

Quanto deve essere la pressione arteriosa nello shock settico?

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Capita  spesso a tutti i medici “in prima linea” di trovarsi di fronte una persona con infezione ed ipotensione arteriosa. Se l’ipotensione non si risolve rapidamente con la somministrazione di fluidi (se indicati), si deve iniziare la somministrazione di un vasocostrittore, di solito la noradrenalina (o norepinefrina che dir si voglia), per aumentare di pressione arteriosa. Ricordiamo che oggi questa condizione di ipotensione che necessita di vasocostrittore è definita shock settico se ad essa si associa un elevato valore di lattato plasmatico (1).

Ora nasce spontanea la domanda: che livello di pressione arteriosa dobbiamo mantenere con la norepinefrina?

Sono certo che a molti verrà in mente il valore di 65 mmHg di pressione arteriosa media. Questa soglia è supportata da una raccomandazione forte della linea-guida della Surviving Sepsis Campaign (2): “We recommend an initial target mean arterial pressure (MAP) of 65 mmHg in patients with septic shock requiring vasopressors (strong recommendation, moderate quality of evidence)”.

Questo numero “magico” mi lascia molti dubbi, come qualsiasi altro numero che pretenda di dare presunte certezze alla pratica medica. Ed una attenta lettura della linea guida ben supporta questo mio dubbio.

La raccomandazione di cui sopra fornisce una indicazione solo per l’inizio del trattamento (“We recommend an initial target…)”, che seguendo l’aggiornamento 2018 della linea guida sembrerebbe coprire la prima ora dalla presentazione in ospedale (3). Dall’ora successiva (ora più, ora meno) si individualizzare il livello di pressione arteriosa caso per caso (dimenticando i 65 mmHg), dopo aver raggiunto una migliore comprensione del paziente . Questo è quanto afferma la linea guida, in una riga delle sue 74 pagine:   “When a better understanding of any patient’s condition is obtained, this target should be individualized to the pertaining circumstances.“.

Mi sembra di poter tranquillamente affermare che la vera raccomandazione della linea guida sia l’invito ad approfondire sempre il ragionamento clinico per trovare ogni volta l’approccio terapeutico più appropriato.

Per poter tradurre in pratica tutto questo, cerchiamo prima di capire il significato della pressione arteriosa e quali sono le conoscenze che la ricerca ci mette a disposizione.

Pressione arteriosa o perfusione tissutale?

La prima considerazione è che la pressione arteriosa non può e non deve essere il fine del trattamento emodinamico. Il vero obiettivo è la perfusione tissutale, che assicura alle cellule l’apporto di ossigeno necessario per il metabolismo. In fisiologia la perfusione tissutale non dipende dalla pressione arteriosa (entro certi limiti) per effetto dell’autoregolazione, un fenomeno presente in quasi tutti i distretti vascolari che mantiene costante il flusso ematico nonostante i cambiamenti nella pressione arteriosa. Ma nello shock l’ipotensione potrebbe condizionare la perfusione tissutale perchè la pressione arteriosa può abbassarsi al di sotto della soglia di autoregolazione, che peraltro probabilmente è perduta o meno efficiente in corso di shock settico.

Pressione arteriosa media < 65 mmHg e perfusione tissutale nello shock settico.

Non vi sono studi sugli effetti di una pressione arteriosa media inferiore a 65 mmHg sulla perfusione tissutale di pazienti in shock settico. L’obiettivo minimo dei 65 mmHg appare pertanto arbitrario: potremmo accettare valori pressori inferiori qualora non si manifestassero segni o sintomi correlabili a ipoperfusione tissutale (vedi sotto).

Pressione arteriosa media > 65 mmHg e perfusione tissutale nello shock settico.

Gli studi fisiologici su pazienti con shock settico sono concordi del rilevare che l’aumento di pressione arteriosa media oltre 65 mmHg (ottenuto con l’incremento della dose di norepinefrina) produce un aumento di portata cardiaca e trasporto di ossigeno (4-6). Gli effetti sulla perfusione tissutale sono però contraddittori: in alcuni casi non si modifica (4,5), in altri invece migliora (6). In due trial randomizzati e controllati si è valutato l’impatto sull’outcome di pressione arteriosa media “bassa” (60-70 mmHg) e “alta” (75-85 mmHg) (7,8). Complessivamente non si sono osservate differenze di mortalità, con effetti sia positivi che negativi degli alti valori di pressione (più aritmie, meno insufficienza renale nei pazienti con ipertensione arteriosa, mortalità più elevata nel sottogruppo dei pazienti anziani). E’ da notare che però in questi studi i pazienti con “pressione bassa” in realtà raggiungevano valori di pressione arteriosa media più elevati di quanto pianificato, mediamente 70-75 mmHg.

Su queste base possiamo poggiare una proposta per il supporto cardiovascolare nei pazienti con shock settico. Proviamo a sintetizzarla in alcuni punti:

  1. Pur in assenza di qualsiasi supporto della letteratura, possiamo comunque ritenere ragionevole iniziare precocemente l’infusione di farmaci vasoattivi se la pressione arteriosa media è inferiore a 65 mmHg. Infatti la valutazione della perfusione tissutale (il vero obiettivo del trattamento) può richiedere alcune ore: nel frattempo è appropriato garantire empiricamente la pressione di perfusione che deriva da questa scelta;
  2. se questo approccio “funziona”  (senza raggiungere alte dosi di noradrenalina), direi che quanto abbiamo fatto possa essere sufficiente. A mio parere il successo del trattamento iniziale è supportato dalla normalizzazione entro le prime 2-3 ore sia del lattato arterioso, sia della diuresi, sia del tempo di riempimento capillare, sia della saturazione venosa centrale;
  3. se questo il trattamento iniziale non sortisce gli effetti sopra descritti, se le disfunzioni d’organo in atto non sono particolarmente gravi, si può provare nelle 2-3 ore successive ad incrementare la pressione arteriosa media a 75-80 mmHg e rivalutare i suddetti segni clinici di perfusione tissutale;
  4. se l’incremento di pressione arteriosa media non funziona o le disfunzioni d’organo sono gravi, si impone di fare ciò che anche la linea guida ci chiede: conoscere più approfonditamente il paziente per personalizzare l’approccio. Da notare che se facciamo quanto proposto nei punti precedenti, sono trascorse al massimo 5-6 ore dall’inizio dello shock settico. Non dobbiamo aspettare oltre, potrebbe essere solo tempo perso. Per personalizzare l’approccio, dobbiamo ragionare in termini di trasporto di ossigeno (oxygen delivery, DO2), che è il prodotto della portata cardiaca (cardiac output, CO) ed il contenuto arterioso di O2 (CaO2): DO2 = CO x CaO2. Diventa quindi necessario misurare la portata cardiaca. In un paziente settico con disfunzioni d’organo in atto e segni di ipoperfusione tissutale, ritengo che il CaO2 possa essere ottimizzato quando l’emoglobina ha una concentrazione di almeno 10 g/dL ed una saturazione arteriosa del 95%. Dopodichè, se la portata cardiaca è inferiore al normale e non abbiamo raggiunto gli obiettivi di perfusione tissutale sopra descritti, dovremmo incrementarla (se possibile e con gli interventi appropriati, senza insistere inutilmente con la somministrazione di fluidi) all’interno del range di normalità, che per l’indice cardiaco è 2.5-4 l·min-1·m-2.
  5. Se l’ipoperfusione tissutale permane nonostante l’escalation terapeutica descritta nei punti precedenti, dobbiamo ritenere che essa sia secondaria ad una maldistribuzione del flusso ematico e ad alterazioni del metabolismo cellulare. A questo punto l’emodinamica non può più nulla e ci dobbiamo limitare a mantenere saggiamente le posizioni, o addirittura tornare ad accettare un indice cardiaco ai limiti inferiori della norma qualora valori più elevati siano ottenuti con una elevata aggressività terapeutica.

Abbiamo constatato ancora una volta come la medicina non si faccia ricercando formule magiche, come invece faceva Harry Potter nelle sue avventure: la realtà è diversa dalla magia, dobbiamo pertanto evitare l’harrypotterizzazione della medicina (felice espressione “rubata” al dott. Giuseppe Umana di Catania).

Oggi non abbiamo parlato di ventilazione meccanica, lo faremo sicuramente nel prossimo post. Del resto chi segue ventilab sa bene che dedichiamo ben volentieri spazio anche all’emodinamica (clicca sulla tag “emodinamica” per vedere i post che hanno trattato questo argomento), un amore della prima ora. E’ stato proprio l’incontro con la fisiopatologia cardiovascolare a farmi decidere di fare il rianimatore: oggi sarei un neurologo se non avessi incontrato Starling e Guyton qualche mese prima della laurea. E proprio questa passione è stata decisiva nella decisione di aggiungere il “Corso di emodinamica” nella proposta formativa di ventilab (ci sono gli ultimi posti liberi nella edizione di marzo 2020, se sei interessato all’evento cercalo nel catalogo degli eventi formativi di Fondazione Poliambulanza).

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.
1) Singer M, Deutschman CS, Seymour CW, et al.: The Third International Consensus Definitions for Sepsis and Septic Shock (Sepsis-3). JAMA 2016; 315:801-810
2) Rhodes A, Evans LE, Alhazzani W, et al.: Surviving Sepsis Campaign: International Guidelines for Management of Sepsis and Septic Shock. Crit Care Med 2017; 45:486–552
3) Levy MM, Evans LE, Rhodes A: The Surviving Sepsis Campaign Bundle: 2018 update. Intensive Care Med 2018; 44:925–928
4) LeDoux D, Astiz ME, Carpati CM, et al.: Effects of perfusion pressure on tissue perfusion in septic shock. Crit Care Med 2000; 28:2729–2732
5) Bourgoin A, Leone M, Delmas A, et al.: Increasing mean arterial pressure in patients with septic shock: Effects on oxygen variables and renal function: Crit Care Med 2005; 33:780–786
6) Thooft A, Favory R, Salgado D, et al.: Effects of changes in arterial pressure on organ perfusion during septic shock. Crit Care 2011; 15:R222
7) Asfar P, Meziani F, Hamel J-F, et al.: High versus Low Blood-Pressure Target in Patients with Septic Shock. N Eng J Med 2014; 370:1583–1593
8) Lamontagne F, Meade MO, Hébert PC, et al.: Higher versus lower blood pressure targets for vasopressor therapy in shock: a multicentre pilot randomized controlled trial. Intensive Care Med 2016; 42:542–550

Emogasanalisi e ventilazione meccanica.

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E’ prassi fare una emogasanalisi arteriosa per valutare se l’impostazione della ventilazione meccanica è corretta. Ma è davvero utile? O può essere addirittura dannoso? Cerchiamo di ragionare insieme per trovare una risposta a queste domande (tutt’altro che scontate).

Premetto che non parleremo di tutto quello che ci può dire una emogasanalisi arteriosa, ma solamente di quei numeri che tradizionalmente si vanno a vedere dopo la regolazione del ventilatore meccanico: PaO2/FIO2, PaO2 e SaO2, PaCO2 e pH.

La funzione polmonare: PaO2/FIO2.

Il PaO2/FIO2 è un indicatore di disfunzione polmonare, molto grossolano anche se ampiamente utilizzato. Non ci dice se un paziente è ipossico o meno, ma ci dà un’idea della perdita di funzione del polmone (un po’ come la creatinina per il rene). La funzione polmonare si identifica principalmente con lo scambio gassoso, che ha luogo nell’unità alveolo-capillare attraverso l’accoppiamento di ventilazione e perfusione. In assenza di ventilazione o perfusione non esiste scambio gassoso. Tanto minore è la ventilazione rispetto alla perfusione (mismatch ventilazione-perfusione), tanto peggiore è la funzione polmonare e quindi il PaO2/FIO2.

E’ importante capire che la ventilazione meccanica NON ha come obiettivo il miglioramento della funzione polmonare. La funzione polmonare inevitabilmente migliorerà quando si avvieranno alla guarigione i processi patologici che ne hanno determinato l’alterazione. Se questa affermazione non ti appare ovvia, ti invito a sospendere il giudizio e proseguire nella lettura.

Non mi viene in mente nessuna evidenza che documenti che il miglioramento della funzione polmonare (e quindi del PaO2/FIO2) ottenuto con la ventilazione meccanica riduca la mortalità. Sappiamo invece, da due importanti studi clinici, che il miglioramento della funzione polmonare (cioè l’incremento PaO2/FIO2) ottenuto con l’impostazione di volume corrente e PEEP determina un aumento della mortalità.

Nei pazienti con ARDS la scelta di un volume corrente di 12 ml/kg di peso ideale migliora la funzione polmonare (cioè il PaO2/FIO2) più di un volume corrente di 6 ml/kg. Nel trial randomizzato, controllato, multicentrico del 2000 che ci ha portati a ventilare i pazienti con ARDS con 6 ml/kg di volume corrente, i pazienti che ricevevano 12 ml/kg avevano infatti un PaO2/FIO2 migliore per i primi 3 giorni dello studio (1).Sappiamo bene tutti come è andata a finire la storia: i pazienti con 12 ml/kg di volume corrente, pur avendo ricevuto una ventilazione che migliorava il PaO2/FIO2, hanno avuto una mortalità più alta dei pazienti con  volume corrente di 6 ml/kg.

Altro ben noto trial è quello che confronta un gruppo di controllo (ventilato con PEEP “bassa”) rispetto al gruppo “reclutamento+alta PEEP” (vedi post del 01/10/2017) (2). I pazienti trattati con “reclutamento+alta PEEP” hanno avuto un PaO2/FIO2 migliore per tutta la prima settimana di trattamento rispetto al gruppo di controllo. Ma anche in questo caso chi ha avuto il maggior PaO2/FIO2(“reclutamento+alta PEEP”) ha registrato una mortalità più elevata rispetto al gruppo di controllo, che ha mantenuto una peggior funzione polmonare.

Questi dati ci fanno capire che immettere forzatamente aria dentro un polmone malato ne migliora la funzione (cioè l’aerazione delle zone ipoventilate e quindi il PaO2/FIO2) ma alla fine porta a danni maggiori dei benefici.

Dobbiamo resistere alla tradizione/tentazione di utilizzare il PaO2/FIO2 per valutare l’appropriatezza dell’impostazione della ventilazione meccanica: può essere una scelta con conseguenze drammatiche! Prendiamo questo numero, analogamente alla febbre durante un’infezione, come il termometro del danno polmonare:  se ventiliamo “bene” un polmone, il PaO2/FIO2 migliorerà dopo giorni, così come la febbre scomparirà in un congruo lasso di tempo se abbiamo scelto l’antibiotico giusto.

L’ossigenazione: PaO2 e SaO2.

Uno dei motivi per cui ventiliamo i pazienti è ossigenare il sangue. L’ossigeno disciolto nel sangue arterioso esercita la pressione parziale che conosciamo come PaO2. La quantità di ossigeno disciolta nel sangue arterioso è direttamente proporzionale alla PaO2, ed è stimata dal prodotto della PaO2per il coefficiente di solubilità dell’ossigeno nel sangue, che a 37°C, è 0.00314 ml·dL-1·mm Hg-1. Questo significa che per ogni mmHg di PaOsi hanno circa 0.003 ml di O2 in 100 ml di sangue: quando la PaOè 100 mmHg, l’O2 disciolto è quindi 0.3 ml ogni 100 ml di sangue (cioè 0.3 mlO2/dL), una quantità davvero irrisoria e quindi solitamente trascurabile e trascurata. Dobbiamo pertanto convenire che la PaO2 è un pessimo indicatore dell’ossigenazione del sangue arterioso.

La quasi totalità dell’ossigeno contenuto nel sangue arterioso è legato all’emoglobina. Se la saturazione arteriosa (SaO2) è il 100%, 1 grammo di emoglobina riesce a contenere circa 1.36 ml di O2. In un paziente con 10 g/dL di emoglobina (valore frequentemente osservato nei pazienti critici) questo significa che il contenuto di ossigeno del sangue arterioso (CaO2) è 13.6 mlO2/dL. Se la SaO2 cala del 10% (dal 100 al 90%), anche il CaO2 calerà del 10%, passando da 13.6 a 12.2 mlO2/100 ml di sangue. La stessa riduzione di CaO2 può essere osservata se l’emoglobina diminuisce del 10%, passando 10 a 9 g/dL*.

Dal momento che la riduzione della SaO2 da 100 a 90% produce esattamente la stessa diminuzione di ossigenazione del calo di emoglobina da 10 a 9 g/dL, possiamo ben capire come una SaO2 del 90% sia assolutamente adeguata ai fini ossigenativi. E possiamo convicerci della ragionevolezza delle raccomandazioni che ci invitano ad cercare una SaO2 tra 88-95%. Per stimare la SaO2, in assenza di emoglobine patologiche, non abbiamo bisogno di eseguire una emogasanalisi ma può essere sufficiente il dato che in maniera continua e non-invasiva fornisce la pulsossimetria (cioè la SpO2).

L’eliminazione della CO2: PaCO2 e pH.

Distinguiamo tra due differenti condizioni: 1) il paziente con insufficienza respiratoria ipercapnica e 2) il paziente con insufficienza respiratoria ipossiemica.
1) Il paziente con insufficienza respiratoria ipercapnica (spesso un paziente con BPCO riacutizzata) inizia la ventilazione meccanica proprio perchè è ipercapnico. L’ipercapnia è la conseguenza dell’ipoventilazione alveolare secondaria all’affaticamento dei muscoli respiratori. In questo contesto la ventilazione meccanica deve necessariamente ridurre la PaCO2, e farla tornare gradualmente a valori non dissimili a quelli precedenti la riacutizzazione. Se questo non accade (ad esempio durante NIV) è segno che la ventilazione meccanica non è efficace e quindi si devono rivalutare strategie ed impostazioni. In questo caso l’emogasanalisi arteriosa è un esame irrinunciabile (da unire alla valutazione clinica, ovviamente) per documentare la riduzione della PaCO2 e capire se stiamo utilizzando correttamente la ventilazione meccanica per sostituire i muscoli respiratori.
2) Il paziente con insufficienza respiratoria ipossiemica (pensiamo ad un paziente con ARDS) invece vede l‘incremento della PaCO2 come conseguenza dell’aumento dello spazio morto (il volume corrente si concentra in poche aeree polmonari determinando in esse un incremento del rapporto/ventilazione perfusione). La ventilazione con basso volume corrente, associata all’incremento dello spazio morto, favorisce l’instaurarsi di ipercapnia. In questo contesto è ormai ampiamente accettato che gli aumenti di PaCO2 possano essere tranquillamente tollerati finchè il pH non scende sotto 7.20-7.25 (personalmente accetto anche valori più bassi): l’emogasanalisi per valutare la PaCO2 può essere una pericolosa tentazione: può infatti indurre ad allentare la ventilazione protettiva (aumentando volume corrente e/o frequenza respiratoria). Mi piace ricordare che che l’ipercapnia ha anche molti effetti positivi, che non è vero che l’acidosi riduca la risposta cardiovascolare alle catecolamine, che è infinitamente peggio l’ipocapnia dell’ipercapnia… In questo contesto l’emogasanalisi ci può servire come esame quotidiano (salvo casi particolari), come l’emocromo o gli elettroliti sierici, ma non a modulare la ventilazione meccanica.

E’ prassi fare una emogasanalisi arteriosa dopo le modifiche dell’impostazione della ventilazione meccanica. Ma è davvero utile? O può essere addirittura dannoso?“: ho iniziato il post con questa domanda, ora penso si possa rispondere ragionevolmente. L’emogasanalisi è fondamentale per determinare l’efficacia della ventilazione meccanica nei pazienti con insufficienza respiratoria ipercapnica (tipicamente la BPCO riacutizzata). In questi pazienti la PaCO2 deve scendere (ed il pH aumentare), altrimenti dobbiamo modificare o l’impostazione della ventilazione oppure l’approccio (ad esempio passare dalla ventilazione non-invasiva all’intubazione tracheale).

Al contrario nei pazienti con insufficienza respiratoria ipossiemica (tipicamente la ARDS), meno emogasanalisi si fanno, meglio è. In questi pazienti ci è sufficiente osservare la saturazione non-invasiva del saturimetro  (SpO2) e cercare di mantenerla tra 90 e 95%. PaO2, PaO2/FIO2, PaCO2 e pH sono solo indicatori della gravità della malattia polmonare che non devono essere utilizzati per valutare l’efficacia dell’impostazione della ventilazione meccanica, la quale nei pazienti con ARDS deve essere ostinatamente guidata dal mantenimento della ventilazione protettiva anche a dispetto dell’emogasanalisi.

Come sempre, un sorriso a tutti gli amici di ventilab.

Bibliografia.

1. Acute Respiratory Distress Syndrome Network: Ventilation with lower tidal volumes as compared with traditional tidal volumes for Acute Lung Injury and the Acute Respiratory Distress Syndrome. N Engl J Med 2000; 342:1301-1308
2. Writing Group for the Alveolar Recruitment for Acute Respiratory Distress Syndrome Trial (ART) Investigators, Cavalcanti AB, Suzumura ÉA, et al.: Effect of lung recruitment and titrated Positive End-Expiratory Pressure (PEEP) vs low PEEP on mortality in patients with Acute Respiratory Distress Syndrome: a randomized clinical trial. JAMA 2017; 318:1335-1345

*Ricordo che l’unità di misura della concentrazione ematica dell’emoglobina sono i grammi per decilitro (g/dL) e non i famosi “punti di emoglobina”, che tanto piacciono ai chirurghi (e, ahimè, non solo a loro…)

Ventilazione meccanica e polmonite da coronavirus

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Come forse avrete sentito dire, in Italia si stanno verificando casi di malattia da coronavirus (COVID-19, Coronavirus disease), causata dal virus denominato severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2). E qui in Lombardia abbiamo diversi casi di COVID-19, per ora più che in altre regioni di Italia.

Questa settimana ho iniziato a ventilare i pazienti con COVID-19 e voglio condividere la mia esperienza (nulla di più) con i lettori di ventilab. Magari domani dovrai farlo anche tu…

La COVID-19 è una malattia caratterizzata da una polmonite infiltrati interstiziali,  che rientra a pieno nella definzione di ARDS: è una condizione acuta con ipossiemia grave e infiltrati polmonari bilaterali non attribuibile ad una disfunzione ventricolare sinistra. Ma dal punto di vista ventilatorio ha qualche peculiarità rispetto alle ARDS a cui siamo abitauti.

Nei casi che ho seguito la caratteristica principale è la grave ipossiemia associata ad una compliance dell’apparato respiratorio superiore a quella che normalmente vedo nei casi di grave ARDS.

Nella mia personale esperienza, il paziente “tipo” con COVID-19, che ha una gravissima disfunzione polmonare, con un PaO2/FIO2 di circa 100 mmHg (anche meno) (vedi post del 31/01/2020), ed una meccanica respiratoria solo lievemente peggiore di quella dei pazienti ventilati senza ARDS, con una compliance dell’apparato respiratorio di circa 40 ml/cmH2O. Si ha quindi spesso a che fare con un paziente gravemente ipossico ma “facile” da ventilare. La compliance quantifica quanti ml di gas entrano nei polmoni aumentando di 1 cmH2O la pressione nelle vie aeree: se la compliance è 40 ml/cmH2O, saranno necessari 10 cmH2O per erogare un volume corrente di 400 ml (cioè circa i 6 ml/kg di peso ideale). Questi 10 cmH2O sono la driving pressure, che ha un valore ritenuto di assoluta sicurezza (ben al di sotto dei 14-15 cmH2O) (vedi post del 26/02/2016).

Il paziente tipo con COVID-19 se fa un PEEP trial (vedi post del 06/10/2013), spesso ha driving pressure basse e costanti fino a valori di PEEP relativamente elevati (15-20 cmH2O). Quando mi trovo in queste condizioni con i pazienti con ARDS senza COVID-19, di solito scelgo il valore di PEEP più basso associato alla minor driving pressure (spesso inferiore a 10 cmH2O) e regolo la FIO2 per ottenere una saturazione di 90-95 %. Nel paziente con COVID-19 questo approccio funziona male. Bisogna infatti aumentare molto la FIO2 (fino a 0.9-1) per garantire una ossigenazione appena sufficiente. Se invece si aumenta la PEEP fino ai valori più elevati (sempre associati alla minima driving pressure), si ottiene un’ossigenazione sufficiente con FIO2 molto più basse (0.5-0.7). Quindi spesso si ritrova con PEEP dell’ordine dei 12-15 cmH2O anche chi, come me, è spesso abituato a utilizzare con PEEP inferiori.

Il paziente tipo con COVID-19 che ho imparato a conoscere questa settimana di solito risponde bene alla pronazione (vedi post del 26/05/2013), pratica che solitamente riservo ai casi veramente gravi di ARDS: cicli di pronazione di circa 16 ore ciascuno sono quindi utili per i primi due-tre giorni.

Il paziente tipo con COVID-19, non gradisce molto la ventilazione non-invasiva. Se ha un’ipossiemia grave, la ventilazione non-invasiva spesso rinvia l’inizio della terapia efficace, che è l’intubazione tracheale con la ventilazione meccanica invasiva. Se si insiste con la ventilazione non-invasiva si rischia concretamente di ritrovarsi il giorno dopo un paziente molto più grave da curare, come capita spesso con i pazienti con insufficienza respiratoria ipossiemica. Da considerare che il paziente con COVID-19, grazie alla sua buona compliance, spesso è in grado di mantenere il respiro spontaneo con poco sforzo (anche con un deleterio volume corrente elevato). Come abbiamo a visto in precedenza, più è alta la compliance, minore è la pressione necessaria per generare il volume corrente. Pertanto il paziente con COVID-19 arriva alla fatica dei muscoli respiratoria più tardi del tipico paziente con ARDS e bassa compliance: è falsamente tranquillizzante, ma può progredire subdolamente verso un peggioramente drammatico non anticipato da una grave dispnea a riposo.

In sintesi le prime impressioni sulla ventilazione meccanica nei pazienti con COVID-19:

  • non insistere con la ventilazione non-invasiva nei casi gravi;
  • utilizzare la PEEP che contemporaneamente minimizza la driving pressure e migliora l’ossigenazione (diversamente da altre forme di ARDS, l’ossigenazione conta…), quindi una PEEP più elevata che in altri pazienti;
  • pronare precocemente i pazienti più gravi (cioè quasi tutti);
  • avere pazienza, molta pazienza: nella prima settimana i pazienti possono migliorare, ma non sono certi pronti per iniziare il weaning. prima o poi arriverà anche questo momento…

Come sempre, un sorriso agli amici di ventilab. Con l’augurio di mantenere l’entusiasmo e la tenacia anche nei momenti più impegnativi: è qui che si fa la differenza…

 

Ventilab è tornato.

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Nei giorni scorsi ci sono stati problemi tecnici per l’eccesso di traffico al sito e ventilab non è stato disponibile. E’ stato tutto rimesso in funzione, faticosamente e spero definitivamente, anche e soprattutto grazie al lavoro di un infermiere, che ha sottratto parecchio tempo al poco riposo che riesce ad avere nelle pause del superlavoro di questi giorni. Grazie Cesare.

Da oggi quindi tutti i contenuti di ventilab tornano ad essere completamente e liberamente disponibili per tutti.

In questa drammatica esperienza negli ospedali lombardi siamo tutti assorbiti completamente dall’attività clinica. Appena avrò qualche minuto di pausa, condividerò la mia esperienza su come proseguire la ventilazione nei pazienti con COVID-19.

Mi scuso se non riesco a rispondere a molti (a quasi tutti, per la verità), ma in questi giorni sto dedicando il 100% del mio tempo ai miei pazienti.

Anche in questi momenti difficili voglio mantenere, come sempre, il  solito sorriso per tutti gli amici di ventilab. Se vivete o vivrete esperienze come questa, lottate sempre con un sorriso per chi combatte insieme a voi.

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